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economia-repubbdi G. Colonna - 30 dicembre 2013
La lezione del 2007-2008 non è stata compresa. Basterebbe questa affermazione per definire lo scenario dell'economia mondiale dei prossimi mesi ed anni.


I grandi centri finanziari mondiali, che elaborano le strategie sistemiche dell'economia mondiale, dimostrano di non volere e di non potere rinunciare all'orientamento speculativo che è insieme all'origine della crisi che ha investito il sistema-mondo nell'ultimo quinquennio, e che, allo stesso tempo, costituisce il fondamento stesso del potere dei "padroni dell'universo", come questi oligarchi amano definirsi.

Lo dimostra il fatto che nessuna delle regolamentazioni statunitensi o europee ha affrontato le tre questioni che avrebbero dovuto essere preliminari all'adozione di qualsiasi modalità di risoluzione della crisi.
Primo, le isole del tesoro internazionali, collocate nei "paradisi fiscali" che sfuggono a qualsiasi controllo pubblico e che tuttavia sono la rete logistica mondiale cui si appoggia tutta la speculazione finanziaria internazionale. Secondo, gli strumenti finanziari speculativi, che fuori da ogni controllo continuano ad alimentare l'industria della speculazione, fornendogli una massa di manovra (stimata prudenzialmente, nel solo caso dei derivati, in 500.000 miliardi di dollari nel 2011), costantemente alimentata al preciso scopo di accrescere senza limite la capacità di moltiplicazione dei profitti, da un lato, e, dall'altro, di sottrarre a controllo il potere dei detentori della moneta virtuale. Terzo, le società di rating, i cui azionisti sono tanto profondamente radicati nel sistema finanziario internazionale da rendere risibile la pretesa di queste cosiddette agenzie di essere al di sopra delle parti: ragione questa per cui nessuna credibilità né oggettività possono avere valutazioni espresse da attori per altro già privi di qualsiasi legittimità giuridica internazionale.

La risposta dei governi occidentali, sia di modello statunitense che europeo, si è semplicemente articolata su tre linee: definire un perimetro di organizzazioni finanziarie internazionali "troppo grandi per fallire"; intervenire in loro difesa, con la produzione di una gigantesca massa di aiuti monetari, ad un costo di oltre 7.700 miliardi di dollari nei soli Stati Uniti, mediante politiche dirette dagli stessi istituti di credito internazionali, sia nel caso della Federal Reserve che della BCE; spremere, con politiche di riduzione della spesa pubblica e di innalzamento della pressione fiscale, quante più risorse possibili dal lavoro dei popoli, allo scopo di impedire la bancarotta di Stati interi, come già avvenuto negli Usa, in Islanda, Irlanda, Grecia e in Portogallo, e come ancora potrebbe accadere: in tal modo "fiscalizzando" le rovinose perdite del sistema finanziario internazionale.

Nessuna strategia diversa è stato possibile concepire negli Usa e in Europa per il semplice fatto che, da oltre mezzo secolo, sono i centri finanziari mondiali a condizionare gli Stati nazione dell'Occidente, grazie alla formazione di una vera e propria classe dirigente internazionale che occupa con continuità le posizioni chiave, indipendentemente dalle alternanze di governo e dalle competizioni elettorali: classe dirigente cui viene affidata la puntuale esecuzione di strategie economiche, monetarie e legislative costruite a livello globale. Una vera e propria oligarchia economico-politica internazionale, che ha progressivamente svuotato di significato la democrazia parlamentare occidentale, giacché il popolo è stato privato della sua prerogativa essenziale, la sovranità, per un verso e, per l'altro, della sua principale forza politica, il lavoro.

La finanziariazione dell'economia mondiale, cui abbiamo assistito nell'ultimo mezzo secolo, ha infatti anche influito in modo determinante sulla trasformazione dei sistemi industriali. In primo luogo, a causa della tendenza, a partire dagli anni Ottanta, da parte degli attori del sistema finanziario, ad intervenire sul controllo delle aziende, i cui pacchetti azionari sono diventati "merce" sui mercati finanziari mondiali; in tal modo, il management aziendale ha sempre più dovuto tenere in considerazione i desiderata degli azionisti di controllo, invece di concentrarsi su strategie produttive e commerciali virtuose; di conseguenza, le strategie industriali si sono rivolte sempre di più al breve termine piuttosto che a piani di investimento, ricerca e sviluppo in grado di rafforzare i sistemi produttivi nel loro insieme. La finanziarizzazione, dunque, è diventata il carattere prevalente anche al livello delle grandi imprese: in questo modo, si è anche accentuata la tendenza da parte della proprietà a servirsi degli utili per entrare nel grande gioco finanziario, piuttosto che reinvestire nel futuro delle imprese.

Per questa via, assecondata anche da quanti hanno promosso l'idea della "democratizzazione della finanza", il lavoro produttivo e la piccola impresa, entrambi legati alle libere capacità umane, nonostante la loro predominanza statistica, sono stati marginalizzati: una tendenza che oggi si completa, quando i grandi gruppi bancari preferiscono investire i generosi aiuti ottenuti a spese della collettività nell'acquisto di titoli di Stato piuttosto che nel credito alle PMI.
Le forze politiche al potere nei diversi contesti nazionali, di qualsivoglia orientamento, non sono state capaci, per le ragioni già viste, di elaborare politiche alternative a quelle dettate dai dogmi dell'economia speculativa. L'unica risposta in termini ideologici è stata quella di enfatizzare, difronte alla complessità ed alle dimensioni dei problemi operativi, l'intervento dei cosiddetti tecnici, la cui pochezza, che di rado ha saputo raggiungere persino un livello di buona pratica ragionieristica, è sotto gli occhi di tutti.

È dunque evidente che fino ad ora, in questo scenario, si è persa l'occasione per prendere coraggiosamente atto della crisi come di un evento globale e non contingente, esigendo quindi, da parte delle classi dirigenti, un radicale mutamento di rotta. Tale mutamento non potrebbe che fare perno sull'emancipazione dell'economia reale, quella degli imprenditori, dei lavoratori e dei consumatori, dal controllo dell'oligarchia finanziaria e dalla strumentalizzazione politica dei partiti - con la creazione di autonomi strumenti di decisione, opportunamente istituzionalizzati. Istituzioni autonome dell'economia reale che dovrebbero esigere il controllo, per esempio, della moneta e del credito.
La crescente consapevolezza dei "limiti allo sviluppo" che si sono sempre più chiaramente manifestati negli ultimi decenni, impone anch'essa che le forze dell'economia reale, piuttosto che rincorrere le asticelle statistiche della "ripresa", si impegnino a riorganizzare la produzione, nel campo dell'energia, della tecnologia, dei servizi, dei beni di largo consumo, orientandola verso prodotti a basso impatto, recuperabili, di elevata qualità e durata - un riorientamento in grado di imprimere nuovo dinamismo ai sistemi produttivi.
Solo dando voce, spazio e autorità a chi opera nell'esistenza reale degli organismi sociali, come imprenditore, lavoratore e consumatore, si può pensare di liberare l'economia dal peso congiunto del debito e della speculazione, realizzando quella democrazia del lavoro senza la quale la democrazia politica è ormai divenuta un guscio vuoto.

Tratto da: clarissa.it

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