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una stella incoronata di buoidi Benedetta Tobagi - 24 novembre 2013
Il trauma delle stragi impunite, confinato nel silenzio, coltiva un tumore nel corpo della società. Nessuno, beninteso, se non due vecchi estremisti di destra, si permetterebbe mai di dire apertamente che la gente se ne frega di sentir parlare delle bombe. Per carità, con tutti quei morti, pietà cattolica non lo consente. Per depotenziare il trauma, scatta un meccanismo di rimozione più efficace. Si lascia che gli orrori galleggino in una nebbia lattea di indeterminatezza in cui tutto resta astratto, sospeso, sterilizzato. Emerge giusto qualche scoglio, qualche nome, frammenti di cronaca ripetuti come un mantra. Gherardo Colombo, un uomo che sa scegliere le parole con grande cura, nel volume autobiografico.

Il vizio della memoria conia una formula perfetta. «Solenni ovvietà», così chiama tutte quelle cose terribili che «si sanno» ma senza conoscerle davvero, ciò che tutti hanno orecchiato prima o poi, magari indignandosi brevemente, ma resta lì, sospeso nel vuoto. Fatti pesanti come macigni, ridotti alla stregua di isole disperse. La traccia dei collegamenti si affievolisce e si perde nel ricordo, fino a che diventano grumi illeggibili cui è difficile, e spiacevole, pensare. Meglio lasciar perdere: tanto, per fortuna, è passato. È lontano. Oppure, è solo l’ennesima prova che è tutto uno schifo e non vale la pena di tornarci su. La storia di ogni strage è complessa, un labirinto pieno di false tracce e vicoli ciechi in cui è facile perdersi (non bisogna lasciarsi sviare dall’immagine addomesticata dei labirinti di siepi ben disegnati che adornano i giardini delle ville aristocratiche: la strage somiglia piuttosto al dedalo originario, dimora del Minotauro, mostro divoratore di innocenti che, una volta gettati dentro, non avevano scampo). È difficile ritesserne le fila. Allora si semplifica. «Strage impunita» è un marchio che funziona. Sui giornali e in Tv, solo le assoluzioni continuano a fare notizia, molto più dell’incriminazione o persino della condanna in extremis di qualche criminale di mezz’età di cui nessuno sa niente. Le stragi impunite sono ridotte da tempo a una litania inoffensiva, «perché Piazza Fontana, Brescia, la stazione di Bologna, l’Italicus, Ustica eccetera, eccetera, eccetera…» cantava Gaber con lapidaria ironia in Qualcuno era comunista.

Una fiammata d’indignazione e una lacrima. Un luogo e tutt’al più una cifra, il numero dei morti: come le vecchie targhe delle macchine, o le sigle dei taxi, Milano 17, Brescia 8, Bologna 85… Risuonano appelli rituali ormai logori, «abolire il segreto di Stato», «scoprire i mandanti», mentre in questo magma indistinto muore d’asfissia la fiducia dei cittadini verso lo Stato.
Parole, elencazioni, evocazioni. Pochissime immagini. Ecco, alla storia delle stragi impunite manca persino un immaginario a cui appigliarsi per ricominciare a pensare. Non esiste l’equivalente della foto del ragazzo con la P38 in via De Amicis, a Milano, divenuta simbolo degli “anni di piombo”, ed è logico: i colpevoli sono per lo più senza volto. Ma nemmeno il corrispettivo del Moro prigioniero che regge un quotidiano davanti allo stendardo delle Brigate rosse. Le immagini delle stragi sono prive di esseri umani. [...] Il 28 maggio 1974 consegna il proprio racconto ai volti degli uomini. A Brescia non è avvenuta la più grande delle stragi, né la più nota. Ma è diversa dalle altre, per tanti motivi, e lo si capisce già dalle fotografie. «Strage col più alto tasso di politicità», è stato detto: perché la bomba colpì una manifestazione antifascista. Le immagini di piazza della Loggia dopo l’esplosione brulicano di persone. Gente che grida, corre, scappa, piange, resta impietrita. Manifestanti che soccorrono le vittime.
(tratto da Una stella incoronata di buio)

Tratto da: La Repubblica

IL LIBRO
Una stella incoronata di buio
(Einaudi, pagg. 480 euro 20)

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