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ustica0di Andrea Purgatori - 28 giugno 2013
Bari. “Quando sarà, io me ne voglio andare con la coscienza a posto. Perché se lassù incontrerò anche uno solo di quegli ottantuno poveretti che stavano sull’aereo, non voglio che mi sputi in faccia”. Il maresciallo Giulio Linguanti ha 76 anni e una memoria testarda che non perde un colpo. Nel 1980 era in forza al reparto del Sios Aeronautica nell’aeroporto di Bari. E a Bari lo incontro oggi, nella sua casa, davanti a un caffè. Lui con le sue carte piene di appunti, io con un registratore.

È un uomo d’un pezzo, Linguante. Con la vita segnata da un evento che per un mese, in due riprese, l’ha portato sulle montagne della Sila a organizzare il recupero del Mig23 libico che, a giudicare dai vermi lunghi cinque centimetri che avevano fatto il nido nel cadavere già putrefatto del pilota, non precipitò il giorno del suo ritrovamento ufficiale (18 luglio) ma almeno tre settimane prima. Cioè il 27 giugno, la stessa sera dell’abbattimento del DC9 Itavia. “Risolvete il giallo del Mig23 e avrete trovato la chiave per scoprire la verità su Ustica”, disse nel 1982 Giovanni Spadolini. Un giallo nel quale il maresciallo del Sios ha una parte da protagonista.

Prima di quell’estate, i libici Linguante li aveva già visti volare e pure atterrare in tranquillità sul territorio italiano. “Una volta ci ritrovammo una intera squadriglia di elicotteri di Gheddafi sull’aeroporto di Bari. Mandammo gli equipaggi in mensa e scattammo più foto che potevamo”. Non fu l’unico episodio. Il 22 giugno del 1980, mentre i capi di stato e di governo scendevano dai loro aerei sull’aeroporto di Tessera per raggiungere Venezia e partecipare al summit dell’allora G7 presieduto da Francesco Cossiga, poco distante erano parcheggiati dei C-130 dell’aviazione della Jamahiria araba libica che noi italiani stavamo trasformando in segreto da cargo per uso civile in aerei da supporto militare. Gli stessi C-130 venduti a Tripoli con una mediazione in pieno embargo organizzata da Billy Carter, fratello del presidente americano Jimmy Carter, che grazie anche a quello scandalo passato alla storia come “Billygate” si giocò la rielezione per un secondo mandato alla casa Bianca.

Per non parlare dei piloti che Gheddafi mandava in segreto ad addestrarsi a Galatina, alla scuola di volo dell’Aeronautica. O dei Mig che sempre a Galatina i nostri piloti videro atterrare più di una volta, prima e dopo la strage di Ustica. Ma non si poteva dire. Anzi, bisognava negarlo. Gheddafi a quel tempo era il nemico numero uno dell’Occidente. Di americani e francesi, soprattutto. Mentre noi ci flirtavamo, un po’ per minaccia e molto per interesse. Tanto da salvargli la vita parecchie volte. Forse pure quella notte in cui avrebbe dovuto fare la fine che toccò al DC9 Itavia. La stessa notte e nello stesso cielo in cui volò quel pilota libico ai comandi del Mig23 che forse era di scorta al colonnello, che sfuggì al missile che colpì l'aereo di linea italiano ma poi venne inseguito e precipitò sulla Sila. Un mistero nel mistero di quella strage.

Trentatre anni dopo, il maresciallo Linguante ricorda parole, facce. Tutto. “Arrivai sulla Sila la notte del 18 luglio, insieme a un altro sottufficiale di Bari. È caduto un aereo libico e a Roma vogliono sapere, ci dissero. Era tardi, andammo a dormire in una caserma dei carabinieri. La mattina dopo, mentre preparavo la macchina per raggiungere Castelsilano, arrivò un appuntato che aveva appena partecipato alla sepoltura del pilota del Mig23. Era stravolto, ci mancava poco che vomitasse. Puzza che non ci si può stare vicino, diceva. Strano, pensai. Io ne ho visti di morti. E anche se fa caldo, dopo appena un giorno nessun cadavere è ridotto a quel modo”.

Il Mig23 si era schiantato contro un costone di roccia a strapiombo su una pietraia. Per raggiungerlo, il maresciallo camminò per chilometri in mezzo a un bosco. “Da lontano pareva un camion ribaltato, con le ruote in aria. Era grosso e praticamente intatto. Tanto che quando dopo un mese lo portarono via, dovettero spezzare le ali. Altra cosa strana, perché un caccia che va dritto per dritto contro un muro di roccia normalmente finisce in pezzi. Poi vidi dei buchi sulla coda, fori di cannoncino. Tornando in macchina verso il paese, lo dissi al colonnello Somaini. Li ha visti anche lei? Lui girò la testa vago, guardò il cielo e fece: mah, chissà da che parte è arrivato ‘st’aereo… E capii subito che di quella faccenda dei fori era meglio non parlare”.

Non era un’allucinazione. Anni dopo, il giudice istruttore Rosario Priore riuscì a trovare una serie di testimoni che la sera del 27 giugno 1980 si trovavano in punti diversi della Calabria, lungo una rotta ideale che da Ustica andava su Lamezia e fino a Castelsilano. Esattamente sul punto del ritrovamento del Mig23. Più d’uno raccontò di aver visto due caccia che ne inseguivano un terzo sparando con il cannoncino. Sui rottami i fori erano parecchi, una raffica. Gli abbiamo sparato noi nel poligono della Snia a Colleferro per testare la resistenza della lamiera, dichiarò l’Aeronautica. Che per questa giustificazione meriterebbe un posto nella top ten del ridicolo che affiora a tratti in questa strage. Pari a quella con cui il portavoce dell’Arma azzurra, generale Mangani, cercava di sostenere la tesi del cedimento strutturale: prima di entrare nella flotta Itavia, il DC9 trasportava pesce alle Hawaii, e siccome il pesce sta in mare e nel mare c’è il sale e il sale corrode, per la proprietà transitiva l’aereo era marcio.

Intorno alla carcassa del Mig23, Linguante organizzava, accompagnava, trasportava. “C’erano rottami sparsi ovunque. Anche se appena arrivammo la cloche era già sparita, e chissà chi e quando se l’era portata via”. Già, chi e quando? Ma soprattutto come? Dall’alto del costone di roccia era impossibile scendere. Dal basso, si dovette attendere che il Genio aprisse appositamente uno sterrato. Faceva caldo ed era facile perdersi. Solo Linguante e pochi altri sapevano orientarsi nel bosco. Il presidente della commissione d’inchiesta, colonnello Ferracuti, che poi certificò come il pilota del caccia sarebbe arrivato da Bengasi alla Sila per colpa di un infarto dopo aver innestato l’autopilota e anni dopo sarebbe diventato capo di stato maggiore dell’Aeronautica, una mattina pretese di fare tutto da solo e s’incamminò a testa alta. “Sbucò dal bosco dopo tre ore, con la tuta fradicia di sudore, assetato, stremato”.

Altra storia quella dell’Americano spedito di corsa a ispezionare il relitto, che alcuni ritengono fosse il responsabile di una squadriglia di Mig “donati” da Sadat agli Stati Uniti dopo l’abbandono del padrinato sovietico. E altri pensano fosse il capostazione della Cia a Roma: Duane “Dewey” Clarridge, l’uomo che durante lo scandalo Iran-Contras (armi a Teheran in cambio di denaro per i controrivoluzionari in Nicaragua) stava per mandare a casa Reagan con un impeachment e fu graziato da George Bush senior il giorno prima di lasciare la Casa Bianca, l’uomo che secondo il Washington Post non lavorava per gli interessi degli Stati Uniti ma “solo per quelli della Cia”. In una intervista che gli avevo fatto a bruciapelo, Clarridge aveva messo in crisi la versione del governo italiano sulla caduta del Mig23 sostenendo di aver mandato i suoi uomini sulla Sila il 14 luglio, quattro giorni prima del ritrovamento ufficiale. Lo confermò anche a Priore, durante una rogatoria a Washington, ma ritrattò tutto nel processo contro i generali dell’Aeronautica accusati per depistaggio e poi assolti. Mostro a Linguante la foto di Clarridge sull’Iphone. “È lui. L’ho portato io a vedere l’aereo. È rimasto un paio d’ore. Gli avevo organizzato anche un panino e una bottiglia d’acqua. Ha solo bevuto, il panino me lo sono mangiato io alla sua salute”.

Il maresciallo era diventato uno dei perni intorno a cui ruotava l’operazione di recupero del Mig23. Accompagnava generali italiani, ufficiali libici, controllava i soldati piazzati a circondare la zona. Il giorno dell’autopsia, fu scelto come staffetta per consegnare a un colonnello piombato da Roma in elicottero alcuni resti prelevati dal cadavere del pilota. “Mi diedero un barattolo pieno di formalina con dentro un dito e il pene di quel poveretto e un fumogeno per segnalare all’elicottero dove sarebbe dovuto atterrare. Mi dissero che servivano per le impronte digitali e per accertare se fosse circonciso. La cosa mi faceva un po’ schifo, trovai un pezzo di carta geografica e la arrotolai intorno al barattolo, accesi il fumogeno e per poco non prendeva fuoco il campo. L’elicottero arrivò, io consegnai il barattolo e ripartirono subito”. Ed è bene sapere che di quei resti, come di tutti i reperti organici, di tutte le foto scattate, di tutti gli effetti personali del pilota non è mai più stato ritrovato nulla. Svaniti dal giorno dell’autopsia nel cono d’ombra del grande mistero di Ustica.


“Dopo un mese passato in quel posto, mi fu chiaro che quell’aereo non era caduto il giorno in cui avevano detto di averlo ritrovato. Era caduto molto prima, la stessa sera della strage di Ustica, era stato colpito e tutto quello che vedevo davanti ai miei occhi era solo una messinscena. Io sono fiero di avere servito l’Aeronautica, ma mi vergogno delle bugie che sono state dette da alcuni miei superiori. Ho una coscienza e me la devo tenere pulita fino alla fine. Per me e per i miei figli. Costi quel che costi”, dice Giulio Linguante. Al processo contro i generali, gli avvocati della difesa hanno cercato in tutti i modi di delegittimarlo, metterlo in difficoltà, sgretolare il suo racconto. Ma il maresciallo non ha fatto neanche mezzo passo indietro.

Di lui, il giudice istruttore Priore ha scritto: “Questo teste appare uno dei rarissimi che riferiscono fatti e notizie, mostrando ottima memoria e completo distacco all’Arma di appartenenza. Delle sue dichiarazioni dovrà tenersi conto in più occasioni, dalle considerazioni sullo stato del cadavere a quelle sul relitto”. Peccato che cadavere e relitto siano spariti. Non le bugie. Ma nemmeno l’onestà di qualche militare che ancora crede in una verità possibile sulla strage di Ustica.

Tratto da: huffingtonpost.it (ampia fotogallery)

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