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bandiera-israele-iran-webdi Alfatau - 12 agosto 2012
Un anonimo "decisore" israeliano, accreditato come altissimo funzionario, figura-chiave dell'establishment della sicurezza dello Stato ebraico, ha rilasciato al giornalista del quotidiano Haarezt Ari Shavit, un'intervista che riteniamo esplosiva poiché espressamente manifesta la volontà israeliana di colpire l'Iran prima della primavera del 2013, senza attendere oltre le decisioni Usa.

Il misterioso personaggio, facilmente identificabile per chi abbia seguito le vicende dei protagonisti della sicurezza israeliana, ribadisce dapprima concetti ben noti sul pericolo rappresentato da un Iran nucleare, enumerando le principali ragioni che spiegano questa visione: un Iran nucleare innescherebbe una corsa all'atomica in tutta la regione; il pericolo che armi atomiche iraniane giungano in mano a gruppi terroristici; la minaccia agli Emirati Arabi, paragonata all'occupazione della Renania da parte della Germania nel 1936; "l'immunità politica" che un Iran dotato di armi atomiche acquisirebbe anche nei confronti delle opposizioni interne, con un conseguente indebolimento di tutte le forze "moderate" in Medio Oriente.
Sono gli argomenti ormai ben noti dei "falchi" israeliani, per cui è molto più interessante e probabilmente fondamentale, invece, l'analisi della divergenza (gap) tra l'attuale posizione statunitense e quella del governo israeliano. "Per gli Americani - afferma "il decisore", gli Iraniani non si stanno ancora avvicinando alla zona di immunità [il momento nel quale i loro impianti nucleari non sono più vulnerabili ad un attacco, N.d.T.], perché gli Americani dispongono di bombardieri e bombe più potenti e della capacità di reiterare l'attacco per un numero indefinito di volte. Per noi, l'Iran potrebbe entrare prima nella zona di immunità. E quando questo avviene, significa consegnare nelle mani degli Usa una questione vitale per la nostra sopravvivenza. Non si può porre la responsabilità per la propria sicurezza nelle mani nemmeno del proprio migliore e più leale amico. (...) Dal punto di vista del presidente americano, il momento non è ancora venuto. Gli Usa saranno in grado di agire anche l'anno prossimo. Per questo gli Americani ci stanno dicendo che sarebbe un grosso errore agire adesso. Dopo tutto, sono in grado di colpire gli Iraniani mettendoli a tappeto, mentre tutti pensano che noi possiamo al massimo fargli un occhio nero. Per questo sembrerebbe meglio anche per noi, secondo loro, che siano i soli ad agire, non noi. Ma come Stato sovrano, gli stiamo dicendo, su questioni vitali per la nostra sicurezza non possiamo mettere in mani altrui il nostro destino. (...) Cinque anni fa, gli iraniani avevano 800 kg di uranio arricchito e oggi ne hanno oltre sei tonnellate e mezzo. Se aspettiamo fino alla prossima primavera, avranno sufficiente uranio arricchito al 20 per cento per fare una prima bomba. Più andranno avanti, più saranno tentati di superare la soglia, di superarla di nascosto. Questo è un pericolo reale per noi, che presto non saremo più in grado di fermare. Il problema resterà serio per il mondo e per noi, ma solo il mondo sarà in grado di occuparsene. Non saremo più un attore, a quel punto. Per noi la questione si sposterà dall'ambito dei decisori a quello degli analisti e degli storici. Non possiamo permettere che ciò accada. Quindi c'è un effettivo gap [una divergenza] fra gli Americani e noi."
A questo punto, il misterioso personaggio sviluppa un'interpretazione della visione iraniana che è importante riportare in quanto evidenzia come, diversamente da quello che spesso si dice in Occidente, gli uomini dell'establishment israeliano non considerano affatto l'estremismo di Ahmadinejad il fattore di rischio decisivo del nucleare iraniano. Al contrario.
"Mi riferisco ad un discorso che l'ex-presidente iraniano Akbar Rafsanjani tenne una decina di anni fa. Rafsanjani è percepito in occidente come un iraniano moderato. Ma chi legge le parole di questo iraniano, perderà qualsiasi illusione. Vedrà che quello che noi stiamo fronteggiando è un unico ragionamento che potrebbe portare ad un'apocalisse. Perché, cosa ha detto Rafsanjani? Dice che tra Musulmani e Israele non c'è compromesso possibile e quindi non ci sarà nemmeno un equilibrio fondato sulla deterrenza. Dice che Israele non è una superpotenza con un territorio di dimensioni continentali. Non è nemmeno il Giappone che ha assorbito Hiroshima e Nagasaki e in 15 anni è diventato un potenza mondiale. Israele è uno Stato da una bomba sola. Dopo una sola bomba atomica, non sarà più quello che era o che riteneva di essere. Una sola bomba è sufficiente a porre fine alla storia del Sionismo. Invece, dice Rafsanjani, il mondo musulmano ha un miliardo e mezzo di persone e dozzine di Paesi. Anche se Israele colpisce duramente il paese che lancia la bomba, l'Islam rimarrebbe intatto. Una guerra nucleare non farebbe scomparire il mondo musulmano ma danneggerebbe in modo irreparabile Israele".
Difronte all'obiezione di Ari Shavit sugli enormi costi che un attacco israeliano all'Iran potrebbe avere, l'anonimo interlocutore sviluppa la sua analisi:
"La sua domanda è quale sia l'obiettivo dell'operazione. Non prendiamoci in giro. Il nostro obiettivo non è di annientare il programma nucleare iraniano. Ma bisogna rendersi conto del fatto che la questione è il collegamento tra la nuclearizzazione dell'Iran e la caduta del regime degli ayatollah in Iran. Se abbiamo successo nel ritardare il programma nucleare di sei, otto o dieci anni ci sono buone possibilità che il regime non sopravviva fino al momento critico. Così il nostro obiettivo è ritardare."
Anche sul piano delle conseguenze per Israele, "il decisore" risulta estremamente determinato:
"Israele è una nazione forte. Abbiamo buone capacità. Il numero di vittime che ci possiamo aspettare sul fronte interno in caso di guerra con l'Iran, Hezbollah e Hamas è inferiore al numero delle perdite del Quarto Battaglione della Brigata Harel nel 1948*. Ma nel 1948 era chiaro a tutti che non c'erano alternative. Questo ci ha dato a livello nazionale forza e determinazione. Se comprendiamo che anche ora non c'è scelta, avremo bisogno lo stesso di tutta la nostra forza a livello nazionale. Ricordo che da ogni punto di vista, compreso quella di preservare vite umane, occuparsi di un Iran nucleare tra pochi anni sarà molto più complesso che prevenirlo adesso. Non dobbiamo ascoltare coloro che in ogni situazione preferiscono l'inazione all'azione."
La domanda che viene spontanea è a chi sia in realtà rivolta un'intervista di così forte impatto, proposta in un momento in cui la gran parte dell'opinione pubblica è distratta ma gli addetti ai lavori sono in grado di decifrare perfettamente l'importanza del messaggio: gli Iraniani sono perfettamente in condizione di sapere chi è "il decisore", idem gli Statunitensi. E forse proprio a questi ultimi è quindi rivolto l'avviso più forte: non ci si faccia illusioni che Israele preferisca attendere l'esito delle elezioni, non è un obbligo, per lo Stato ebraico. In cambio, Israele farà chiaramente capire, quando colpirà, che lo sta facendo da solo e per proprio conto.
"Non dovremmo assolutamente trascinare deliberatamente gli Stati Uniti in guerra. Se decidiamo di intraprendere questa operazione, deve essere un atto indipendente che si giustifica da solo, senza attivare nessuna reazione a catena. Un Paese non va in guerra nella speranza o nell'attesa che un altro Paese si unisca al conflitto. Un atto del genere sarebbe una scommessa irresponsabile".
Ma in questo modo, in realtà, il legame fra l'azione israeliana e i tempi della transizione elettorale americana diviene più forte che mai, dimostrando che il continuo, crescente, inarrestabile collegamento fra le strategie israeliane e gli Usa sta ormai condizionando irrefrenabilmente la politica nord-americana, come bene ha dimostrato Gaetano Colonna in Medio Oriente senza pace.
Con ogni probabilità, il messaggio è quindi indirizzato anche a quei settori israeliani che esitano a colpire da soli e che vorrebbero ricavare, come dividendo proprio della politica appena ricordata, un intervento americano che sia risolutivo, senza esporre lo Stato ebraico ad un confronto diretto con l'Iran. Anche su questo "il decisore" conclude con un invito senza mezzi termini alla chiarezza.
"Se Israele perde l'occasione di agire e diventa chiaro che non ha più il potere di agire, la probabilità di un'azione americana diminuirà. Perciò non possiamo attendere un anno per scoprire chi ha ragione: chi dice che la probabilità di un'azione americana è alta, chi dice sia bassa. Non possiamo aspettare, per scoprire poi una bella mattina che noi contavamo sugli americani ma ci siamo ingannati perché gli americani alla fine non agiranno. Dobbiamo guardare in faccia la realtà con assoluta chiarezza. Perfino una realtà crudele deve essere vista con totale chiarezza. Israele è forte, Israele è responsabile, Israele farà quello che deve fare".

* Secondo fonti ufficiali israeliane, l'intera Brigata Harel perse 313 uomini nel conflitto del 1948.

Tratto da: clarissa.it

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