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romano 20120216di Franco Romanò* - 18 febbraio 2012
"Finale europea" intitolava il Manifesto di lunedì e l'amara ironia che nasconde è anche densa di significati: come sul Titanic l'orchestra continua a suonare. L'Unità invece titolava "la Grecia assediata", e anche su questo titolo si può concordare, sperando che subito dopo si dica da chi.

L'immagine della Grecia strozzata o annegata dai suoi fratelli e sorelle continentali mi sembrerebbe più rispondente al caso, seppure non esaustiva, dal momento che sono due le mani al collo della Grecia, una sola delle quali europea. Infine, per rimanere ai giornali, sul suo blog Marcello Foa, a lungo firma de Il Giornale, si domanda angosciato “ma sei voi foste greci cosa fareste?” e subito dopo chiede: “succederà in Italia?”.

Mi sembra fra tutte la questione più importante e per questo scelgo i suoi interlocutori per svolgere le mie riflessioni: immaginare un lettore, seppur ipotetico come in questo caso, aiuta. Scelgo i lettori del dottor Foa perché preferisco pensare di dover rispondere a un lettore di “destra” veramente angosciato piuttosto che a un lettore medio di sinistra che una domanda del genere probabilmente non l'avrebbe mai posta.

Sì, succederà anche qui in Italia quello che sta succedendo in Grecia, caro lettore, a meno che non accada qualcosa che avrebbe del miracoloso e cioè un cambio di rotta drastico che può avvenire solo a livello europeo (o comunque in una alleanza fra nazioni) e non nazione per nazione; cambio che ritengo assai improbabile, vista la cecità dei popoli europei e dei loro partiti politici.

Il problema ulteriore, in Italia, è che sono pochi a voler vedere, capire e specialmente sentirsi dire questo; perciò sarà assai difficile che la sua domanda angosciata riceva qualche risposta attenta: se va bene riceverà solo risposte formali e di circostanza, mentre è assai improbabile che lei legga la mia.

In compenso, credo di sapere cosa accadrà qualora il popolo italiano scendesse in massa per le strade con modalità analoghe a quelle che abbiamo visto domenica ad Atene: ci sarebbe un nutrito stuolo di idioti (molti dei quali di sinistra), che parlerebbero di provocatori pagati dalla Cia, dalla Confindustria ecc. ecc.

A una trasmissione televisiva, la domenica degli incidenti, veniva intervistato un giornalista greco accreditato in Italia. L'uomo cercava di spiegare le ragioni della rabbia, ma ogni tanto infilava nel suo discorso il mantra della provocazione. Dal momento che lo faceva spesso a sproposito, pur parlando e capendo benissimo l'italiano, mi è venuto un dubbio e allora ho notato che, di tanto in tanto, l'uomo gettava un'occhiata alla conduttrice del programma e allora ho capito: era la redazione italiana a chiedergli di infilare il mantra della provocazione nel suo discorso e come tutte le cose che ti prendono un po' di sorpresa finiscono per essere fatte male.

Ciò che succede in Grecia succederà in Italia e in altri paese europei tutti in fila uno dietro l'altro perché la logica che ha portato al massacro del popolo greco ha radici profonde e lontane nel tempo e continua a produrre le stesse politiche, nonostante siano evidenti da tempo le conseguenze di tali misure: la Grecia è solo la prima perché era la più esposta nel continente europeo, ma quella in atto è una vera e propria guerra contro i popoli europei. Alla Grecia è già stata chiesta una resa incondizionata come avviene in un conflitto militare, ma come era prevedibile non basta: il prestito non viene ancora elargito.

Sono le stesse politiche che hanno portato in pochi anni all'impoverimento di molti popoli del terzo e quarto mondo che si stavano portando a un livello di vita più dignitoso; la novità è che queste stesse politiche arrivano ora a colpire quella parte del mondo che si credeva immune da processi di depauperamento così forti ed estesi. Tutto qui: è anche per questo che gli europei non vogliono vedere e capire. Quando venivano applicate ai popoli del terzo e quarto mondo queste politiche avevano un nome: programmi di aggiustamento strutturale e due autorità mondiali a proporre e a vigilare sulla loro attuazione: la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale. Quest'ultimo, due anni prima del fallimento dell'Argentina indicò nella nazione latino americana lo stato che aveva meglio interpretato i loro dettami: appunto! Il risultato fu il fallimento e la fame per milioni di persone: solo ora la nazione latino americana si sta lentamente riprendendo ma per farlo ha del tutto abbandonato la logica suggerita dalle istituzioni internazionali.

In Europa il problema cambia nome: è il debito pubblico o sovrano, ma la logica è la stessa, le politiche identiche. Si tratta di un massiccio processo di centralizzazione delle risorse finanziarie in grandi istituzioni sovranazionali al di fuori di ogni controllo possibile da parte dei popoli e persino dei singoli governi: in Europa tale funzione è svolta dalla BCE e porta alla espropriazione di sovranità di tutti i popoli europei: naturalmente tale processo incide diversamente sui diversi popoli e stati, a seconda della robustezza o meno delle loro istituzioni: in una situazione come quella italiana, dove la criminalità organizzata controlla una parte consistente dell'economia nazionale (è questa la prima causa della diffusione massiccia di lavoro nero e conseguente evasione fiscale), il contraccolpo è più forte che in altri stati europei.

La BCE non si comporta come una banca centrale dovrebbe comportarsi da un punto di vista fisiologico, ma come l'anello principale di una catena del tutto chiusa al proprio interno e autoreferenziale: la BCE presta denaro alle banche centrali dei paesi dell'eurozona, che a loro volta se ne servono per risanare i bilanci di banche decotte e fallite per i loro errori di management, e a loro volta queste banche 'risanate' non prestano alle industrie, ma preferiscono comperare titoli di stato garantito dalla Bce, creando così un vero e proprio gorgo finanziario che nel giro di poco tempo è destinato a produrre una nuova crisi.

Per alimentare questo circuito perverso vengono tagliati stipendi e pensioni, distrutte la scuola e la sanità, il territorio, le condizioni di lavoro diventano più che precarie quasi schiaviste: in sostanza si espropriano i popoli di quei beni comuni che formano il tessuto sociale e direi anche antropologico della vita e della possibilità di riprodurla. Ogni volta che fallirà uno stato assisteremo a una breve fiammata di rialzo delle borse, come sta accadendo in questi giorni, prima di un nuovo crollo.

I Greci, con le manifestazioni di ieri e auspicabilmente delle prossime, stanno dando a tutti una lezione di dignità e mi piace pensare che questo venga dalla nazione che è la culla della democrazia per tutti gli europei: i simboli hanno la loro importanza. Il problema è quella che ho chiamato nel titolo a questa risposta a lei, caro lettore, infamia dell'Europa.

Cerco di spiegare perché ho usato un'espressione così forte. Parlo di infamia perché gli europei fanno finta di non vedere, indignados compresi, il cui silenzio la dice lunga sulla vacuità di questo movimento, scomparso dopo la manifestazione del 15 ottobre scorso. La sindrome che è scattata è la seguente: non siamo greci, a noi non accadrà. Lo pensano tutti, alcuni lo dicono, altri no ma inconsciamente lo pensano, nonostante siano già nella fila subito dopo il popolo ellenico: portoghesi, irlandesi, spagnoli, italiani, francesi.

Lo dicono presidenti del consiglio e della Repubblica (i nostri lo hanno ripetuto più volte in questi giorni che “l'Italia non è la Grecia”). La ritengo una forma che sta a metà strada fra la rimozione e il razzismo e anche una forma di guerra preventiva alla ribellione sociale, quando se ne fanno portavoce presidenti del consiglio e della repubblica. Il razzismo ha molte facce, alcune più visibili perché rozze e immediate, come quelle della Lega Nord o delle forze dell'estrema destra più eversiva. Esiste una seconda forma di razzismo più sottile ed è quella di cui si sono fatti interpreti coloro che affermano “L'Italia non è la Grecia.” C'è tutto un sotto fondo in questo discorso, di cui chi usa l'espressione non si serve perché tanto sa già che esiste come retroterra sottoculturale: i greci sono levantini, sono pecorai come sono sempre stati e devono tornare ad esserlo.

Naturalmente le risparmio, caro lettore, gli stereotipi pronti per essere usati uno in fila all'altro, per i popoli che seguono quello greco. Lo ritengo un discorso irresponsabile e pericolosissimo quando a farlo sono capi di stato e di governo: la sindrome di scaricare sugli altri la responsabilità di quanto avviene in Europa può portare molto lontano, in una direzione che conosciamo benissimo dal momento che ha generato due guerre mondiali.

Il punto terminale di una frase del tipo “non siamo la Grecia” ha come deriva estrema il razzismo di stato finlandese che chiede alla Grecia l'Acropoli di Atene come garanzia per il prestito. In rete si ride a questa proposta, citando a sproposito una frase di Marx (le cose accadono due volte, una prima volta come tragedia la seconda come farsa); purtroppo non è sempre così, come la storia del secolo scorso dimostra: il riso sguaiato di tanti commentatori della rete è una altro dei segni della deriva culturale, prima che politica, che ci attanaglia.

C'è infine una terza forma di sottile razzismo che definirei democratica. Se la rivolta greca dei giorni scorsi fosse scoppiata in Africa o in Asia, lei avrebbe letto su molti giornali e siti espressioni del tipo primavera equatoriale, rinascimento orientale, orgoglio subsahariano ecc. ecc. In Grecia niente di tutto questo: discorsi moderatissimi anche quando si mette in evidenza, ma in modi talmente contorti e gettando tutta la colpa sulla Germania (che ne ha ma non è questo il punto decisivo), che il popolo greco dovrà accettare una ricetta lacrime e sangue: dove ciò che conta non è la prima parte della frase, ma la seconda e cioè che lo dovranno accettare standosene zitti. Il razzismo che ho definito democratico sta in questo: quando le rivolte popolari avvengono in altre parti del mondo sono giustificate perché quei popoli derelitti vivono sotto il giogo di feroci dittature (di cui andremo a liberarli presto come chiede il comandante in capo aggiunto Adriano Sofri), mentre sono intollerabili nelle nostre splendide democrazie.

Le nostre non sono più democrazie, caro lettore, e non lo sono più da tempo, ma una forma di dittatura di tipo nuovo, che non si esprime immediatamente con i carri armati e i colpi di stato militare, ma con lo svuotamento progressivo di tutte le articolazioni della democrazia stessa, a cominciare dai parlamenti, ridotti a strumenti di pura ratifica di scelte che vengono prese altrove e cioè nelle istituzioni internazionali, espressione di poteri non eletti.

La finzione democratica appare più convincente in certi stati piuttosto che in altri per ragioni storiche che sarebbe troppo lungo indicare; oppure si esprime in articolazioni della società civile che oppongono forme di resistenza territoriale più o meno efficace e diversa a seconda delle situazioni. È solo su queste ultime che possiamo contare e sperare, ammesso che ci rimanga il tempo per farlo. Infatti, da questo mio ragionamento, caro lettore, rimane fuori lo scenario di guerra all'Iran, sempre più possibile, anche se verrà probabilmente attuato dopo le elezioni statunitensi di novembre. Se dovesse accadere l'Europa intera ne sarebbe coinvolta in misura ben maggiore di quanto non sia avvenuto con la guerra di Libia.

*Scrittore e redattore della rivista online "Overleft" - www.overleft.it

Tratto da: megachip.info

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