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di Stefano Giantin
Belgrado. Come sopravvivere all'inferno una volta che la tempesta è passata? La medicina è «raccontare ciò che avevamo visto», affinché nessuno possa dire non sapevo, perché la memoria non si perda, sosteneva Primo Levi. Per Hasan Nuhanovic, invece, la spinta è forse ancora più alta. E nobile. Risponde al nome di «giustizia», un termine che ripete più e più volte, al telefono da Sarajevo, sottolineando qual è, ancora oggi, la missione della sua vita.
Giustizia per Srebrenica, genocidio del 1995 che fu l'apice più sanguinoso della guerra in Bosnia, lo sterminio di oltre 8mila maschi musulmani per mano dei serbo-bosniaci. Fra qualche giorno ne ricorre il venticinquesimo anniversario, di quella mattanza di cui, suo malgrado, Nuhanovic è uno dei testimoni più autorevoli. Oggi l'attivista, intellettuale e scrittore, ha 52 anni. Nel 1995 ne aveva solo 27. Prima della guerra conduceva una vita normale in una famiglia della media borghesia jugoslava. Vita, la sua, devastata dal conflitto e dalla pulizia etnica. E annientata fu anche la sua famiglia, a Srebrenica. Padre e fratello vittime del genocidio, la madre morì poco dopo. Lui sopravvisse grazie al suo lavoro di interprete per i caschi blu. Prima però dovette tradurre personalmente ai rifugiati - anche alla sua stessa famiglia - il disonorevole ordine dato dai militari olandesi. Gli ostaggi dovevano uscire dalla base Onu e arrendersi agli sgherri al comando del generale serbo-bosniaco Ratko Mladic, con la promessa che non sarebbe stato fatto loro del male. Vide tutto. E non dimentica. «La cicatrice più profonda nella mia anima è il momento in cui la mia famiglia fu consegnata ai soldati serbo-bosniaci dagli olandesi, dall'Onu», esordisce Nuhanovic, Elie Wiesel bosniaco che per anni ha lottato perché sia riconosciuta la co-responsabilità olandese nel genocidio, che quest'anno sarà ricordato in Bosnia quantomeno sottotono, a causa della pandemia.
Genocidio che poteva «essere evitato», ripete più volte, ricordando i ventimila civili bosgnacchi che nel luglio 1995 imploravano protezione all'Onu dopo la caduta di Srebrenica - «safe area» solo sulla carta, assediata per tre anni - tenuti in scacco dai serbo-bosniaci. Dopo la caduta, furono migliaia i civili che cercarono riparo nel vicino compound dell'Onu, poi cacciati dagli olandesi con la rassicurazione che «i serbi non vi faranno del male». «Io ho solo tradotto quello che mi dicevano gli olandesi, l'ho fatto anche alla mia famiglia. Ho provato per due giorni a convincere» i caschi blu «a permettere a mio padre, mia madre e mio fratello di rimanere nella base. Chiedevo pietà per mio fratello, rifiutarono. Tutti dovettero abbandonare la base. E sapevano che andavano a morire», ricorda l'autore di «Under the U.N. Flag», atto d'accusa contro l'inazione di quella comunità internazionale che rimase a guardare mentre la bandiera blu dell'Onu sventolava su Potocari e tutto attorno si compivano crudeli massacri.
Fu una grande mattanza senza fine che insanguinò le colline e i boschi attorno a Srebrenica, in particolare tra il 13 il 17 luglio, mentre a migliaia cercavano la salvezza in lunghe marce della morte attraverso le foreste, per raggiungere il territorio controllato dal governo di Sarajevo. Partirono in 15mila, ne arrivarono vivi 5-6mila. Non furono risparmiati neppure donne, vecchi e bambini, in quella breve ma orribile «stagione della caccia», così la definì uno dei caschi blu olandesi in fase di rimpatrio dopo i massacri. I caschi blu erano consapevoli di cosa si stava preparando, ha per anni sostenuto Nuhanovic. Nessuno credeva veramente alle parole di Mladic, che prima dei massacri si era fatto riprendere davanti a Potocari, circondato dalle sue milizie mentre distribuivano acqua, pane e dolcetti ai bambini. «Calmi, non abbiate paura, lasciate che donne e bambini salgano per primi sugli autobus, nessuno vi farà del male», assicurava davanti alle telecamere il generale, già in tasca i piani della carneficina. E anche i militari stranieri «avevano visto i serbi uccidere persone già prima di allora, attorno alla base, ma nascondevano i fatti agli sfollati, volevano solo liberarsi di loro, del problema. Liberarsi di loro e tornare a casa».
Nella sua casa di prima della guerra, a Vlasenica, Nuhanovic invece non è tornato. «Ho studiato a Sarajevo, sono cresciuto a Vlasenica, nella Bosnia orientale. È difficile credere a ciò che i nostri vicini serbi hanno fatto ai bosgnacchi a Vlasenica. Mia madre fu uccisa lì», dopo la caduta di Srebrenica, «nella stessa città da dove eravamo scappati tre anni e mezzo prima, nello stesso posto dove c'era un campo concentramento in cui le donne venivano stuprate, torturate, gli uomini uccisi». «Erano i nostri vicini» a commettere questi crimini», ricorda Nuhanovic. «A Vlasenica non sono più tornato, non sarei mai in grado di passeggiare per le strade, bere un caffè senza interrogare la gente del posto, senza chiedere chi ha ucciso mia mamma».
La sua vita è stata invece dedicata a raccontare quanto visto a Srebrenica, in battaglie legali contro l'Olanda - conclusesi con la vittoria di chi sosteneva la loro corresponsabilità - nell'attesa di una condanna definitiva di Mladic, «un vecchio oggi, in cattive condizioni di salute, ma ancora un simbolo» per alcuni, in Bosnia e in Serbia.
«Dopo Srebrenica, per almeno cinque anni, ho avuto però problemi» ad andare avanti, confessa Nuhanovic. «Mi ha aiutato la nascita di mia figlia, segno che la vita continua. Ho tracciato una linea rossa, conscio che vivrò per sempre con il dolore» per Srebrenica, «ma bisogna andare avanti. Vivo ancora due vite parallele, nella mia testa ogni singolo giorno c'è il ricordo» di quanto accaduto nel 1995. Ma c'è anche l'esistenza di oggi, di fronte ai miei occhi scorrono continuamente le immagini di due film», in conflitto tra loro. «E ho dovuto trovare un modo per mettere insieme questi due film. Ma bisogna chiedersi - chiosa Nuhanovic - come siano andate avanti le madri che hanno perso figli, mariti, per loro la vita è finita in quei giorni» di caldo torrido e sangue, nel luglio di 25 anni fa, a Srebrenica.

Tratto da: La Stampa del 9 luglio 2020

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