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1di Jean Georges Almendras
Lila Pastoriza, sopravvissuta all'ESMA, fa una commovente testimonianza del caso Míguez

Straziante. Commovente ed agghiacciante la storia dell'adolescente di 14 anni Pablo Míguez. Pablo fu uno dei detenuti nei centri clandestini di detenzione della Scuola di Meccanica dell'Armata (ESMA), un sinistro edificio nell’Avenida Libertador di Buenos Aires, della dittatura militare argentina. Pablo fu torturato ed il suo nome si è aggiunto all’elenco delle migliaia di desaparecidos, vittime del terrorismo di Stato degli anni settanta a Rio de la Plata, e in particolare in Argentina, dove a ergersi da padroni assoluti di migliaia di vite furono i membri della Giunta Militare - presieduta dal Generale Jorge Rafael Videla - protagonista del colpo di Stato nel marzo del 1976.
La vita di Pablo ed il suo martirio sono stati resi noti al mondo in vari modi, ma Lila Pastoriza - sopravvissuta all'ESMA - è stata una delle divulgatrici più affidabili della sua storia per il semplice fatto che lo conobbe personalmente, lì dove anche lei era prigioniera. Con la sensibilità di una donna che conosce tormenti e sofferenze, che fu testimone diretta delle sofferenze altrui, Lila Pastoriza ha pubblicato sul quotidiano Pagina 12 un prezioso scritto dove racconta in modo crudo la sofferenza di Pablo nella sua breve vita, che ha subito sulla propria carne gli effetti di una dittatura militare, spietata e criminale. Il racconto di Lila Pastoriza su Pablo Míguez, a distanza di oltre 40 anni da quei giorni di terrore, è ancora oggi valido, perché permette di capire chiaramente la bestialità della mentalità militare dell’epoca. Una realtà che dà i brividi nei giorni nostri, perché quell’epoca di terrore non sembra così distante, a giudicare dai fatti di oltraggio, soggiogamento e terrorismo di Stato, di cui siamo testimoni ancora oggi nei paesi latinoamericani, dove il Piano Condor di altri tempi sembrerebbe alleggiare ancora tra noi, letale e crudele, come agli inizi.
Il titolo dell'articolo di Lila Pastoriza dice tutto: “Non sapevano cosa fare di lui". "(Pablo) Era figlio di militanti politici. Fu torturato davanti a sua madre perché lei si rifiutò di firmare i documenti della sua casa. Era condannato perché aveva visto troppo. Nemmeno i sicari dell'ESMA osavano dare esecuzione alla condanna. È desaparecido”.
Lilla Pastoriza racconta nel dettaglio il martirio vissuto da Pablo: "L'alba in cui fu sequestrato - 12 maggio 1977 -, Pablo Míguez aveva 14 anni. Un gruppo operativo dell'Esercito andò a cercare la madre ed il suo compagno, attivisti dell'ERP, e portò tutti al centro clandestino di detenzione noto come 'Il Vesuvio', nel Partido de La Matanza. Per 'Pablito', come lo chiamavano nei centri, iniziò uno spettro di terrore ed incertezza il cui epilogo si perde nella notte e nella nebbia del silenzio e nell'impunità. Dopo alcuni mesi nel Vesuvio lo trasferirono nella soffitta più alta dell'ESMA che condividemmo insieme. Dopo, non si sa. Forse rimase un tempo nella prefettura di Valentín Alsina. O forse la Marina lo "aveva già trasportato" in uno dei suoi voli. Pablo non fu visto mai più. Chi decise la sua sorte? Era un minorenne. Forse per il generale Martín Balza rappresentava un caso archetipico di quelli che lui considerava "atti riprovevoli che compromettevano l'immagine istituzionale"?. Siamo riusciti a ricostruire frammenti del suo girare nei centri clandestini. Fino alla scomparsa, chiaro. Cosa fecero con Pablo Míguez? Le Forze armate devono rispondere da 21 anni".
Pastoriza, con il suo proprio stile, continua a raccontare il vissuto dell'adolescente. Passo dopo passo. Minuto dopo minuto. Ogni sequenza sin dal suo ingresso nel centro clandestino di detenzione ESMA.

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"Agosto del '77, Scuola di Meccanica dell'Armata. Nell'ultimo piano dell'edificio dove era in funzione il Casinò degli Ufficiali - 'capuchita" -, una delle guardie veterane del posto porta un 'nuovo' prigioniero, gli toglie il cappuccio e commenta ad un altro: "guarda cosa ci troviamo adesso... ha 14 anni"."Sono di fronte alla mia cuccetta e riesco a vedere solo la metà inferiore di un corpo che indossava un largo pantalone sul rossiccio. Credevo fosse una ragazza. Ma invece, era Pablo. Lo sistemarono a fianco a me e gli misero sugli occhi una benda bianca, (come quella che portavano coloro che dovevano essere liberati). Poco dopo, ed approfittando di una "guardia buona", mi raccontò la sua storia, o almeno, quella degli ultimi tempi. Di tutto il suo racconto, nel dettaglio, ne ebbi conferma, molti anni dopo, quando seppi che non era più stato trovato e cominciai a cercare attraverso le testimonianze dei sopravvissuti, il suo passaggio in centri. Allora scoprii che la sua storia era stata molto più terribile e dolorosa di quanto le sue parole evocavano. Molto più insopportabile. Forse per questo motivo la raccontava così”.
Lila Pastoriza racconta nel dettaglio la storia familiare di Pablo. Una storia che si colloca perfettamente nel suo contesto di vita, nel suo contesto personale: "Pablo era il figlio maggiore di Juan Carlos Míguez - allora commerciante - e di Irma Beatriz Márquez Sayago, soprannominata familiarmente "Nené" e nella militanza conosciuta come "Violeta". Quando la arrestarono, lei aveva 34 anni, gli ultimi dei quali si era divisa tra l’attivismo politico ed i suoi figli. Pablo aveva una sorellina, Graciela - due anni minore di lui - e dopo Eduardo, il figlio di Nené e del suo nuovo compagno. Erano gli anni sessanta. La famiglia era una delle tante appassionate di politica e credevano nella possibilità di cambiare tutto. Vivevano a Palermo. I ragazzi fecero le elementari alla Scuola Armenia Argentina. Ma nel '73 i genitori si separarono e Nené ed i suoi figli cambiarono scuola e quartiere. "Pablo cominciò le medie a Lomas de Zamora e dopo frequentò l'Industriale di Avellaneda. Frequentava il secondo anno quando lo portarono via", racconta il padre.
"Era molto irrequieto, molto ribelle… e ancora molto infantile...". "In quei giorni, Pablo girava diverse case. Quella di sua nonna, Teodomira Sayago, quelle della famiglia paterna (padre, zii e cugini), molto vicini al sindacato del turf e alle corse, un mondo che lo affascinava. Ma dove realmente abitava era a Spur e Belgrano, ad Avellaneda, con sua madre ed il suo compagno, Jorge Capello (il cui fratello fu ucciso nel '72 a Trelew). A casa si respirava l’attivismo. Nei primi mesi del '77, quando aumentarono le operazioni di repressione, ai ragazzi più piccoli li portarono a casa della nonna. Solo Pablo rimase a vivere lì".
E come una delle tante storie di militanza, la routine familiare di Pablo Míguez ebbe una svolta brutale nel mese di maggio del 1977, appena pochi mesi dopo il colpo di stato militare. Quando appunto la repressione si intensificò. Quando il terrorismo di Stato argentino si concentrò sugli uomini e le donne attivisti. Ed anche sui loro figli. Lila Pastoriza racconta:
"Il 12 maggio 1977, alle tre del mattino, una delle ‘patotas’ (chiamati anche ‘grupos de tareas’, squadre che si occupavano dei sequestri e torture, ndr) dell'apparato militare repressivo irruppe nell’appartamento in Via Spur e portò via i suoi abitanti: Irma, Capello, un altro compagno -Luis Munitis- e Pablo. Lui mi raccontò che in un primo momento lo avevano lasciato sopra ma che tornarono a riprenderlo pochi minuti dopo e lo misero nel cofano di una delle automobili. Lì iniziò il suo viaggio negli inferi dell'orrore. Lo apprese già durante quel tragitto e dalle urla dei suoi cari, torturati appena arrivarono al Vesuvio, un centro clandestino vicino all’incrocio tra la Avenida Ricchieri e Camino de la Cintura”.
“Un bambino, Pablo Míguez, e sua mamma, che chiamavano Violeta, ma il suo vero nome era Irma Beatriz Márquez di Míguez, arrivarono al centro di detenzione insieme al compagno di Violeta, chiamato Capello -raccontò Elena Alfaro, sopravvissuta al Vesuvio, nel Processo alle Giunte--. Questo bambino aveva sui 12 o 14 anni, non ricordo, ma era una creatura. Fu portato con sua madre. Rimase con noi nelle "cuccie" ed un giorno fu torturato. Lo portarono alla sala di tortura e dopo molto tempo nel centro di detenzione. Quando ritornò, Pablito ci dice “mi hanno sottoposto alla macchina", ed era tutto ferito... Allora, la madre, che era una donna realmente molto forte, di grande qualità umana e di grande forza morale, ci spiegò che avevano torturato Pablito di fronte a lei e tutto perché, apparentemente, Violeta non aveva dato loro i documenti della sua casa...". Un altro sopravvissuto, Hugo Pascual Luciani, un calzolaio che abitava ad Adrogué e che fu sequestrato due volte in quell'anno, ha parlato di Pablo e di sua madre in numerose testimonianze: “C'era lì un ragazzo, Pablito, che a volte distribuiva il ‘mate’ ed a volte portava i ‘tachos’ con l’urina. Era figlio di Violeta, una donna molto intelligente, di bell’aspetto, che mi dava coraggio. Questo ragazzo era Pablito che camminava un po' libero benché di notte gli mettessero le catene. Violeta la violentarono molto, come le altre donne... ed il figlio doveva rimanere a guardare...". "Lei rimase nel centro, poverina, vittima di tutti quei selvaggi"... Tre mesi dopo Pablo era ancora nel centro. "Era un ragazzo di 12 anni, alto, magrolino.... Le guardie commentavano che non si sapeva cosa fare di lui, dato che era abbastanza grande e che aveva visto molto. Si chiamava Pablo" racconta Virgilio W. Martínez, un uruguaiano che stette nel Vesuvio durante il mese di agosto.
"Nel frattempo ogni tentativo di Juan Carlos Míguez alla ricerca di suo figlio riceveva risposta negativa, oppure il silenzio. Il 15 giugno, il tribunale di Istruzione Nº 4 respinse l’hábeas corpus che presentò pochi giorni dopo il sequestro. Il 20 Luglio fu ricevuto dall’allora sottosegretario dell’Interno, il colonello José Ruiz Palacios, il quale, ovviamente, non "aveva informazioni", così come i capi militari e gli alti dignitari ecclesiastici. Un altro ragazzo della sua età, detenuto al Vesuvio insieme al suo papà nello stesso periodo, due giorni dopo era stato restituito di nuovo alla famiglia. Perché Pablo era ancora lì se era tanto semplice liberarlo, portarlo da suo padre che non era attivista politico? A questo punto non c’è altra risposta che una di quelle che non vorremo mai pensare, perché vanno oltre la soglia dell'umanamente comprensibile: avevano già deciso il suo destino, avevano firmato già la sentenza. Ma chi l’avrebbe eseguita? Quelli che avevano convissuto con lui tutto quel tempo? Il maggiore Durán Sáenz che, come mi raccontò Pablo, molte notti lo chiamava per giocare a scacchi?
"Che lo facciano gli altri” deve essere stata la decisione che trascinò Pablito nel labirinto dei centri.... Verso fine agosto lo portarono via dal Vesuvio. Mabel Alonso, sequestrata lì dal 1º settembre, dice che in quella data lui già non c’era. "C’era Violeta. Prima le dissero che il figlio era andato a casa, che gli avevano dato dei soldi per il viaggio. Poi le dissero che lo avevano portato in un Istituto per riabilitarlo”. Questa a quanto pare era la versione di alcune guardie, come raccontò uno di loro ("il Sapo") a Luciani tre anni dopo".

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"Nel Vesuvio - una casa diroccata -, il primo posto da dove passavano inevitabilmente tutti i prigionieri era la "infermeria", una sala con letti e tre piccole celle di tortura con pareti rivestite di polistirolo pieno di svastiche e frasi come "noi siamo Dio" o "Viva Videla". Dopo i detenuti erano portati alle "cuccie", spazi di non più di due metri, separati da tramezzi in legno; dove erano ammucchiati quattro o cinque detenuti, sempre incappucciati ed immobilizzati dalle catene legate alla parete".
"Accanto alla "infermeria" si trovava la Direzione composta da tre camere da letto, due cucine, bagno e, secondo le parole di Elena Alfaro, "una sala da pranzo dove venivano accolti i visitatori importanti, come il generale Suárez Masón, ad esempio". Lì venivano compilate le cartelle con i dati di ogni detenuto che poi erano trasferiti in un altro posto dove, secondo Luciani, una specie di giudici "decideva chi doveva vivere o morire. Si sentivano dei... condannavano a morte una persona senza nemmeno conoscerne il viso...".
"Le centinaia di prigionieri che, come Pablo, sono stati al Vesuvio sono stati oggetto di vessazioni inimmaginabili. Vedevano come palpeggiavano le prigioniere nude in fila per fare la doccia, sentivano quando le trascinavano alla "infermeria" per violentarle, soffrivano con il dolore e le grida a causa della tortura ed i trasferimenti. I responsabili di tutto questo non erano i membri di qualche ‘patota’ che sfuggiva al controllo dei superiori. Al contrario, il Centro di detenzione apparteneva al Comando della Zona 1 dell'Esercito Argentino sotto la diretta responsabilità del generale Suárez Masón, insieme al generale Juan B. Sassiaiñ. Il tenente colonello Luque ("l'Indio"), ed il maggiore Pedro Alberto Durán Sáenz ("Delta", l'ufficiale di grado più alto del Centro), erano quelli più in contatto con i detenuti”.
Il viaggio all'inferno iniziato il 12 maggio del 1977, quando catturarono Pablo, sfociò in tragedia. Nell'edificio dell'ESMA. Quell'inferno situato in uno dei quartieri più eleganti di Buenos Aires. Lila Pastoriza parla approfonditamente di quello che visse ognuna delle persone coinvolte, affinché non rimangano dubbi. I dubbi che molti hanno lasciato intravedere, completamente indifferenti alla sofferenza delle vittime del terrorismo di un Stato criminale. Di uno Stato genocida. Di una dittatura militare.
"Pablo arrivò alla fine di agosto e rimase un mese nella ‘capuchita’ dell'ESMA, un posto usato da diversi GT (Grupos de tareas) come "deposito" dei loro prigionieri prima del "trasferimento" e, forse, della libertà. A Pablo mai nessuno del gruppo che lo aveva portato era andato a vederlo né fu interrogato dal G.T.3.3.2, la ‘patota’ dei padroni di casa guidata dal capitano Jorge "Tigre" Acosta. Sopportò i trasferimenti dei mercoledì, i lamenti delle persone sotto tortura nelle stanze di fronte a dove eravamo noi, qualche volta, quando c’era una "guardia buona" si godeva il ‘dolce di latte’ rubato nella cucina. Quando lo portarono via, nonostante quel giorno avessero già trasferito alcuni detenuti, tutti pensavamo che lo avrebbero lasciato in libertà”.
"Juan Farías, un veterano militante peronista che era con lui al Vesuvio, assicura che Pablo fu portato in data incerta, tra settembre e novembre, al commissariato di Valentín Alsina dove, come accadde con Farías stesso, si "ripuliva" i desaparecidos che dovevano essere legalizzati. Raccontò al giudice che Pablo diceva che lo avrebbero lasciato in libertà e che rimase lì quando a lui lo portarono lui all'Unità Penitenziaria Nº 9. Quella è l'ultima pista che abbiamo. Di Pablo non si seppe più niente. Tanti i punti interrogativi: se realmente è stato lì, perché non lo liberarono? Ci fu un contrordine? O forse l’l'ESMA lo "aveva trasportato" già in uno dei suoi voli? Queste ed altre domande cruciali aspettano risposta da oltre vent’anni”.
Ma c'è un racconto di Lilla Pastoriza che sconvolge per il drammatico e terrificante vissuto di ambedue. È un racconto che lei stessa ha intitolato: "Un bambino con il viso di biricchino”.
Un racconto eloquente. Più eloquente dell'immaginazione stessa che ci da la dimensione della crudeltà che le ‘patotas’ militari infliggevano ai detenuti.
Un racconto che riassume abbondantemente il dramma di Pablo Míguez. Un racconto che lascia attonito il lettore. Che lo introduce nelle viscere stesse dell'inferno che fu l'ESMA e la dittatura militare dell’epoca. Giorni carichi di morte e dispotismo. Un dispotismo distruttore di vite, di speranze, di libertà e di democrazia.
Emozionata. Commossa. Distrutta. E profondamente ferita, Lila Pastoriza ha scritto, ha ricordato. Ha raccontato.
"Quando ho incontrato Pablo aveva 14 anni ma non ne dimostrava più di dodici con il suo viso di bambino biricchino, le sue lentiggini vicino al naso, i suoi occhi scintillanti, il suo corpo magrolino. Era tanto piccolo, tanto vivace, appariva tanto indifeso in quel mondo allucinante e molte guardie si commuovevano di fronte alla sua presenza. Gli avevano messo un benda sugli occhi che usò quasi sempre come fascia ed ogni volta che poteva usciva dalla cella, per servire il mate, leggere una rivista”.
"In quel lungo e fugace mese che siamo stati insieme, Pablo mi raccontò del Vesuvio, dei carcerati trasferiti da lì che poi un comunicato ufficiale avrebbe indicato come "abbattuti in combattimento", di sua mamma, che non aveva potuto salutare ("lei era nella cucina"), della speranza che lo portassero da suo padre, della sua vita nel mondo esterno - la scuola, il nuoto, i fratelli, la nonna, i cugini ed il turf--, dei suoi amori e le sue paure. Avevamo trovato un modo per parlare senza esseri notati e con gli occhi coperti, ognuno steso sulla cuccetta o inginocchiati contro il divisore in legno che ci separava. Avevo il doppio della sua età, ma avevamo cura l’uno dell’altro. Io cercavo di proteggerlo, soprattutto quando di notte si svegliava piangendo, "ho sognato mia mamma”. Quando mi raccontò che lo avevano sottoposto alla ‘picana’ (strumento per scosse elettriche, ndr.) persi il controllo e lui si disperava perché voleva tranquillizzarmi, e mi diceva "tanto, non mi ha fatto male”.
"Nel tempo che rimase lì nessuno si fece carico del suo caso. Ciò lo angosciava. Non sapeva chi era "padrone" della sua vita, a chi doveva pregare per la sua libertà."
"Lo portarono via un pomeriggio alla fine di settembre del 77. Io uscivo dal bagno quando vidi in un istante che la porta si chiudeva dietro lui che camminava alla cieca, per mano del capo delle guardie. Pensai che dovevano fare qualche procedura. Sopra, gli altri carcerati mi dissero di no, che lo avevano portato via e che Pablo chiedeva di vedermi. Ho voluto credere allora che lo avrebbero liberato. Chi poteva mandare a morire un ragazzo di 14 anni?”
"Il giorno prima del Processo alle Giunte, in Tribunale, qualcuno mi diede un volantino con la sua foto: "Pablo Míguez, desaparecido", diceva.
"Recentemente sono stata con suo papà e gli ho parlato di Pablo e di questo articolo. Lui mi disse quello che sapeva e portò documenti, foto e ricordi. "È come se mio figlio mi stesse guardando", disse. Con quell'aiuto e con quello della Squadra Argentina di Antropologia Forense sono riuscita a scrivere questa storia frammentata che per me, da 21 anni, è una questione in sospeso".

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Scultura galleggiante a grandezza naturale di Pablo Míguez.
Una scultura galleggiante di "acciaio inossidabile", sul Río de la Plata, è stata intitolata: "Ricostruzione del ritratto di Pablo Míguez", costruita dall'artista Claudia Fontes. La può vedere chi naviga vicino al margine della Città Universitaria, chi visita il Parco della Memoria ed arriva alla fine del muro dove sono impressi i nomi delle vittime, ed anche quelli appena decollati da Aeroparque e scorgono dall’aereo la figura tra le acque. Le acque del Río de la Plata, dove si presume i boia di Paolo lo buttarono nel 1977.
La migliore idea avuta dall'artista Claudia Fontes, che ha voluto che la scultura di Pablo Míguez fosse visibile sistemandola sulle acque del Plata. Una scultura che mostra a Pablo fermo, o come se camminasse.
Il giornalista Javier Sinay, del sito argentino Redacción, ha scritto: "Solo i santi camminano sull'acqua: Gesù Cristo lo fece; Buddha lo fece. Ed ora lo fa anche lui”.
La scultrice Fontes ha detto a Redacción: "Finché un crimine si perpetua nel tempo e non sappiamo la fine di Pablo Míguez, la sua sparizione continua ad essere un problema del presente. La mia opera non è un monumento a lui, ma la ricostruzione di un ritratto: è un anti monumento. Ritenevo che bisognava segnalare quel luogo così importante nel tema dei desaparecidos: il fiume. È plurale, non è unica: ci sono molte memorie. Il materiale della cultura non è acciaio inossidabile, ma riflessi nelle acque del Río de la Plata su acciaio inossidabile".
Javier Sinay di Redacción, riguardo l'opera di Claudia Fontes, ha detto: “Il suo progetto era di collocare la scultura di un desaparecido nel mezzo del fiume e di spalle alla costa, e fabbricarla con un materiale che si mimetizza con il contesto". La scultrice a sua volta ha aggiunto: "Bisognava decidere su alcuni punti che artisticamente sono interessanti. Il primo trovare un posto dove posizionarmi: Cosa possono apportare a questo tema le mie capacità artistiche? Come artista non mi interessava solo la sparizione di Pablo Míguez, ma anche la sua immagine”.
Javier Sinay ha dichiarato: "Di quell'adolescente rimanevano solo poche fotografie e per quel motivo Fontes pensò che la ricostruzione doveva essere collettiva: con la collaborazione di altri. Si è basata su testimonianze e, per progettare un viso, è stata aiutata da un esperto del computer ceco che è riuscito a tracciare un modello partendo da quelle poche immagini. Il suo Pablo Míguez, in realtà, è una metafora: siamo capaci di vedere o no secondo il contesto di cui siamo parte e dove abbiamo un potere di percezione. Per questo motivo questa scultura appare e scompare a seconda della luce e del movimento del fiume".
(3 ottobre 2019)

Foto di copertina: www.redacción.com
Foto 2: Wikipedia / Lila Pastoriza sopravvissuta all’ESMA
Foto 3: www.redacción.com Graciela Díaz / scultura di Claudia Fontes
Foto 4: www.redacción.com Javier Sinay / artista Claudia Fontes

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