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di Luciano Bertozzi
La compra-vendita illegale delle Salw nell’area del cosiddetto ‘Mediterraneo allargato’ è in continua crescita, in particolare in Africa e Medio Oriente. Tra i produttori mondiali, l’Italia occupa il secondo posto dopo gli Stati Uniti

Il 90% delle vittime dei conflitti successivi alla seconda guerra mondiale è causato da armi piccole e leggere (Small arms and light weapons - Salw) come pistole e fucili, e il 70-80% dei morti sono civili. Sono armi di distruzione di massa, visto che possono sfuggire ai controlli, non hanno un grande valore economico e possono essere utilizzate da tutti, anche bambini. Sono i dati della ricerca “Il traffico illecito di armi piccole e leggere nel Mediterraneo allargato” - realizzata dall'Istituto di ricerche internazionale archivio disarmo (Iriad) con un contributo del ministero degli Esteri e della cooperazione internazionale (Maeci) e pubblicata il 29 marzo - che analizza il commercio illegale di tali armi nei paesi che affacciano sull’omonimo mare, in Medio Oriente, nei Balcani, nel Maghreb e nel Corno d’Africa. Un confine, quello tra legalità e illegalità, che si è rivelato in realtà assai labile. E’ sufficiente pensare, infatti, alle armi acquistate legalmente e detenute negli arsenali di Gheddafi che a seguito del collasso del regime sono finite nelle mani di milizie, terroristi e organizzazioni criminali. Nel mondo sono in circolazione oltre un miliardo di armi leggere ed è particolarmente preoccupante il fatto che due terzi di questo immenso arsenale sia in possesso di milizie, gruppi jihadisti, movimenti di guerriglia e bande criminali. In un tale contesto è inevitabile la crescita del mercato internazionale che ha registrato fatturati in costante aumento. Nel 2018 tale mercato era stimato in 90 miliardi di dollari, con 1.000 aziende produttrici in 100 paesi. Anche il numero dei paesi produttori è in aumento, ciò rende meno efficaci le politiche restrittive che possono essere adottate dai paesi esportatori. I principali esportatori sono, nell’ordine: Stati Uniti, Italia, Brasile (ciascuno di questi paesi con un fatturato di oltre 500 milioni di dollari annui), seguiti da Germania, Corea del Sud, Austria, Russia, Repubblica Ceca, Turchia, Belgio, Svizzera, Francia, Croazia, Israele (con fatturati da 100 a 499 milioni di dollari annui). Secondo numerosi analisi (come, ad esempio, il Sipri), l'80% circa della produzione viene trasferita nel mondo con strumenti legali e trasparenti, mentre il restante entra nel mercato illegale. La maggior parte dei produttori sono occidentali, con flussi crescenti di armi piccole e leggere che si dirigono verso l’Africa e il Medio Oriente. La dimensione tipica di questo traffico clandestino è “prevalentemente su scala regionale o locale, attraverso forniture di dimensioni contenute, ma continue”, che provocano nel tempo un accumulo di armi e munizioni. “Gli acquirenti sono prevalentemente gruppi criminali, terroristi, milizie armate non statali, fazioni ribelli o forze rivoluzionarie (soprattutto in contesti di conflitto armato)”. La ricerca ha ricostruito anche le tre rotte principali all’interno del ‘Mediterraneo allargato’. La rotta balcanica, “dai Balcani, tramite la Croazia, la Slovenia e l’Italia, raggiunge l’Europa occidentale (Francia, Germania, Grecia, Olanda, Irlanda, Spagna, ndr), ma anche l’Africa e il Medio Oriente, passando dai paesi dell’Europa meridionale”. La rotta orientale, “parte dagli immensi depositi dei paesi dell’ex Urss e dall’Europa dell’est, puntando tradizionalmente verso l’Africa, ma recentemente anche verso l’Europa occidentale”. La terza, definita “infraMENA” (Middle East North Africa), “rappresenta un mercato prettamente interregionale, che dall’Africa settentrionale, in particolare dalla Libia, distribuisce armi soprattutto in Medio Oriente”. Lo studio affronta anche la promozione e distribuzione tramite internet, ovvero l’offerta di armi vendute online nel dark web (sia nuove che usate, solitamente rubate). Un’offerta molto ampia, nella quale le pistole rappresentano l’84% delle armi in vendita, quindi probabilmente destinate più a delinquenza locale. Altrettanto inquietante è la prospettiva che il rapido sviluppo di stampanti 3D, possa un giorno favorire la realizzazione ‘casalinga’ di piccole armi (senza matricole e in quantità incontrollata), a partire da un semplice file. La ricerca fornisce anche delle indicazioni: auspica il sostegno alle iniziative internazionali di cooperazione, per raccogliere dati, tracciare le armi e monitorare ogni transazione, ma anche il rafforzamento dei progetti di assistenza, il potenziamento dell’Att (Trattato sul commercio di armi) per coinvolgere stati non firmatari e renderlo più stringente, e soprattutto sottolinea che fornire queste armi a gruppi operanti in paesi instabili come Ucraina, Libia o Siria, comporta l’alto rischio di perderne il controllo sulla destinazione finale.

Tratto da: nigrizia.it

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