Questo sito utilizza cookie tecnici e di terze parti per migliorare la navigazione degli utenti e per raccogliere informazioni sull’uso del sito stesso. Per i dettagli o per disattivare i cookie consulta la nostra cookie policy. Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina o cliccando qualunque link del sito acconsenti all’uso dei cookie.

di Karim El Sadi
L’offensiva di Khalifa Haftar è arrivata alle porte di Tripoli. Al Sarraj risponde con l’operazione “Vulcano di rabbia”

Se qualcosa può andare storto allora lo farà” dice la legge di Murphy. Da tempo si temeva che il sottilissimo filo della stabilità in Libia si spezzasse da un momento all’altro. E così è stato. A 8 anni di distanza da quando l’alleanza Atlantica, capeggiata da Francia, Stati Uniti e Inghilterra, invase la Libia per eliminare Muammar Gheddafi, tra le strade del Paese torna a farsi sentire prepotente la parola guerra civile. Nei giorni scorsi le forze dell’autoproclamato Esercito nazionale libico (Lna), guidato dall’uomo forte della Cirenaica Khalifa Haftar, che sostiene il governo parallelo di Tobruk nell’est del paese, ha iniziato quella che ormai è a tutti gli effetti una vera e propria offensiva contro il governo internazionalmente riconosciuto di Fayez al Serraj. In pochi giorni le truppe di Haftar, che hanno potuto contare anche sulle alleanze di gruppi armati nel paese, sono riuscite ad avanzare fino alle porte di Tripoli raggiungendo la periferia sud della Capitale e annunciando di aver preso il controllo dell’ex aeroporto internazionale (in queste ore riconquistato dalle forze armate di Al Sarraj). Insieme alle truppe di terra sono stati impiegati anche i missili Made in Russia “Grad” che sabato scorso sono stati lanciati in direzione della Capitale dagli uomini di Haftar da Garian a 80km circa da Tripoli. Al Sarraj non è rimasto a guardare e ha risposto con raid aerei e con l’operazione annunciata dal portavoce Mohammad Gununu definita “Vulcano di rabbia”, partita da Misurata. Una potente controffensiva che sta recando ingenti danni agli insorti di Haftar. Il premier di Tripoli ha accusato il suo rivale di aver violato l’accordo in vigore tra i due e ha parlato di “una guerra vicina in cui non ci sarà alcun vincitore”. “Il suo attacco - ha spiegato nel corso di un’intervista televisiva - è una dichiarazione di guerra alle nostre città e alla capitale, una coltellata alla schiena, l’annuncio di un golpe contro l’intesa politica”. Gli scontri sono già iniziati da qualche giorno e già si contano le prime vittime. Trentadue nelle prime 48 ore di conflitto, rivelano fonti ufficiali. Cinquanta i feriti, la maggior parte civili, e duemila sfollati. Nel frattempo la missione Onu nel Paese (Unsmil) ha chiesto ieri una tregua di due ore nel sud di Tripoli per evacuare i civili e i feriti. Ma sono grida nel deserto. Da entrambe le fazioni al momento non trapela nessuna intenzione di riporre la pistola nel fodero. I due “sceriffi” sono a un passo dall’esplodere il primo definitivo colpo in questo duello tesissimo che potrebbe sfociare in escalation per avere la meglio su questa preziosissima terra. Un duello al quale assistono potenze straniere interessate alle sorti del paese che, all’ombra, fanno il tifo per il generale. Prima fra tutte la Francia seguita da Egitto e Arabia Saudita. E poi ci sono gli Stati Uniti i quali, se da un lato tramite il segretario Mike Pompeo condannano Haftar, dall’altro “levano le tende” dal Paese con il ritiro del contingente del Commando Africa, per fare ritorno a casa, senza intervenire e “placare” gli animi sul posto (come sono soliti fare). Una mossa che non solo lascerebbe presagire il possibile prolungarsi delle tensioni (quindi una longevità del conflitto), ma starebbe soprattutto a significare il disinteresse degli USA dal salvaguardare la pace nell’area fornendo, di fatto, un assist ad Haftar, che con il lasciapassare degli americani, potrà proseguire indisturbato la propria offensiva verso Tripoli. Una visione condivisa anche dal direttore del blog "Intellettuale dissidente", Sebastiano Caputo che su Facebook ha scritto, “in Libia, gli americani abbandonano Palm City, nel distretto di Janzour a ovest di Tripoli, sui gommoni dell’Africa Command. Un vero e proprio disimpegno che spalanca le porte agli uomini di Haftar. L’amministrazione Trump potrebbe scaricare definitivamente Al Serraj - riconosciuto finora dalla comunità internazionale compreso il nostro governo - per fare un favore a sauditi ed emiratini in una prospettiva anti-Qatar e allo stesso tempo far pagare all’Italia gli accordi commerciali con la Cina”. Intanto a pagare per questo "colpo di stato" è come sempre la popolazione civile e il destino del Paese, che tra una settimana sarà deciso a Ghadames nel corso di una sensibile conferenza nazionale sul Paese sponsorizzata dallOnu. Conferenza che l’inviato speciale Onu per la Libia, Ghassan Salamé dice “si terrà” nonostante il conflitto. Altre parte lesa dalle tensioni in Libia sono i numerosi migranti provenienti da sud. Purtroppo, come sempre è stato e oggi ancor di più, in Libia il fattore instabilità e il fattore migranti sono perfettamente e sfortunatamente direttamente proporzionali. Logicamente più instabilità nel paese uguale a peggiori condizioni di vita dei migranti rinchiusi nei centri di detenzione nella Capitale. E quindi più persone costrette a fuggire per mare.

Un conflitto preannunciato
Il “colpo di stato” di Khalifa Haftar però non deve lasciare a bocca aperta. Malgrado i due leader si fossero incontrati anche di recente, dopo la conferenza di Palermo, ad Abu Dhabi, lo scorso febbraio, dove era persino stata raggiunta un'intesa sulla formazione di un governo di unità nazionale e la necessità di indire le elezioni entro fine 2019, diversi sono stati i segnali di una possibile imminente offensiva. Poco prima della conferenza negli Emirati Arabi Uniti, precisamente il 25 febbraio si è tenuto un vertice euro-arabo a Sharm el Sheikh in Egitto. Nel corso di quel meeting internazionale emerse, come scrive il noto giornalista Alberto Negri sulle colonne del Manifesto, “che al generale egiziano Al Sisi, sponsor di Haftar insieme a Francia, Russia, Emirati e Arabia Saudita, era stato assegnato il ruolo di “guardiano” del Sud e della Libia”. Quest’ultimo è stato ricevuto dal principe saudita Mohammed bin Salman, il mandante dell’assassinio del giornalista Jamal Khashoggi, che è anche il finanziatore ufficiale “di tutte le operazioni contro i Fratelli Musulmani, dall’Egitto alla Libia”. Dove, tra l’altro, “erano arrivati il comandante dell’Africom americana Thomas Waldhauser e il ministro degli Esteri francese Jean-Yves Le Drian, e quest’ultimo aveva avuto anche un lungo colloquio proprio con il generale Haftar”. Per concludere l’uomo forte della Cirenaica possiede una doppia cittadinanza di tutto rispetto: quella libica e quella americana. La domanda da porsi dunque è quali sono gli obiettivi che vuole raggiungere il generale Haftar. Come riporta sempre la lucida analisi del giornalista esperto di medio oriente Alberto Negri, Haftar ha due obiettivi. Quello di spodestare con la propria invasione il governo di Al Sarraj, eliminando tutte le fazioni di islamisti, Fratelli Musulmani in primis, che questi sostiene e impossessarsi delle entrate dei pozzi petroliferi. Al momento Haftar ha il monopolio dei giacimenti a Sud e i terminali ad Est “ma non può esportare il greggio per un embargo internazionale e i soldi dell’oro nero li incassa ancora Tripoli con la banca centrale libica. Aveva infatti chiesto recentemente di aumentare del 40% la sua quota di entrate”.

libia scontro c ansa

Milizie si preparano allo scontro armato. Foto © Ansa


E l’ENI?

Per quanto concerne l’Italia, invece, sul fronte prettamente economico le preoccupazioni sono minori, ma solo per il momento. L’interscambio tra Italia e Libia vale oggi complessivamente 4 miliardi di euro, soprattutto per importazioni di gas e di petrolio. In Tripolitania l’Italia ha il 70% dei suoi interessi economici e del petrolio dell’Eni, insieme al gasdotto Green Stream lungo 520 chilometri, che collega Mellitah e Gela in Sicilia e che copre una parte delle nostre forniture. Intanto l’Eni ha evacuato per precauzione il (poco numeroso) personale presente nella regione dove ha impianti petroliferi anche se opera in zone della Libia in cui il controllo di Haftar da anni non è in discussione e dove il sostegno della popolazione locale è sicuro. Almeno fin quando il conflitto non si estenderà a livello nazionale con combattimenti diffusi anche in aree stabilizzate del paese, prospettiva non difficile da immaginare. Inoltre l’Italia, che appoggia Fayez al Sarraj e il suo esecutivo, può contare anche sugli affari con il Qatar, stretto alleato del premier libico e ostile ai paesi del golfo, al quale sono stati venduti armi, navi, elicotteri e aerei per un valore di 10 miliardi di dollari.

Italia nuovamente raggirata
Durante la guerra del 2011 quando l’Italia si vide “costretta” dalla coalizione nazionale ad abbattere il colonnello Gheddafi, nonchè il maggiore alleato nel Mediterraneo con il quale l’allora premier Silvio Berlusconi aveva firmato accordi per 40 miliardi di euro solamente sei mesi prima del conflitto, il governo italiano ha perso oltre alla credibilità numerosi vantaggi di natura economica e strategica. Quell’anno, in cambio di un sostegno militare e logistico dell’aviazione italiana, i promotori dell’eliminazione del regime Gheddafi (Francia, Inghilterra e Stati Uniti) promisero una “cabina di regia” che poi non venne mai concessa. Nicolas Sarkozy, invece, che ha finanziato e aiutato in ogni modo le fazioni anti gheddafi con denaro, armi e addestratori, è riuscito a strappare più quote di produzione del petrolio in Libia e rafforzare la propria posizione tanto sul fronte politico esterno quanto su quello geostrategico globale. Una scelta, quella di rispondere alla chiamata della coalizione internazionale in quell'anno che non è affatto convenuta, a conti fatti, all'Italia. Quello che è avvenuto a tutti gli effetti è stato un raggiro che si è poi potuto ripetere negli anni per via della posizione italiana sempre poco solida sulla Libia. Al contrario delle altre potenze europee, Francia in primis, che hanno fin da subito avuto le idee chiare su chi riponere la propria fiducia nel paese, il generale Haftar in questo caso. Dal 2011 sono passati 8 anni, e 5 governi (Monti, Letta, Renzi, Gentiloni e Conte) ma le cose non sono cambiate, la Nato e i suoi alleati la fanno da padrone e l'Italia resta a guardare in balia degli eventi. Khalifa Haftar, uno dei principali comandanti dei ribelli nella guerra contro Gheddafi e promotore della “soluzione militare”, conta sul saldo appoggio dei fautori di quel conflitto: Francia, Stati Uniti, Inghilterra, Emirati Arabi ed Egitto. Dall'altra parte c'è il presidente Fayez Al Sarraj (favorevole alla "soluzione diplomatica"), che a conti fatti può fare affidamento su poche potenze estere. La controversa Turchia, il Qatar (sempre più isolato dagli altri paesi del Golfo per le sue posizioni in campo internazionale) e l'Italia che come abbiamo detto non ha mai preso una netta posizione in favore del premier libico. In sostanza, ora che gli sforzi per la pace in Libia possono definirsi falliti, si fa sempre più reale la terribile ipotesi che vede come vincitrice la “soluzione armata” di Haftar. Se questi riuscisse a ribaltare il trono su cui siede Al Sarraj per l'Italia sarebbe un'altra amara sconfitta da digerire. A quel punto la possibilità di avere voce in capitolo nel Paese sarà solo un “miraggio” e di conseguenza volerebbero via, come sabbia al vento, quegli storici accordi economico-politici che legano da decenni l’Italia alla Libia. Senza alcun dubbio però, come ha sottolineato il giornalista Alberto Negri, l'Italia ha sottovalutato la potenza di Haftar "pensando che il governo di Sarraj fosse appoggiato dalla comunità internazionale". Inoltre in caso di fallimento della strategia pro Al Sarraj, cosa sempre più probabile visto il sostegno nazionale e internazionale di cui gode il suo avversario, il governo italiano non ha ancora intavolato un piano “B”. E verrà nuovamente colto alla sprovvista. Se l’Italia fosse stata più attenta, alla luce soprattutto della dura batosta subita nel post guerra del 2011 dove è stata senza ombra di dubbio scavalcata dalle altre nazioni, avrebbe potuto certamente trovarsi in una condizione meno scomoda di quella in cui si trova ora. “Sostenendo" da sola, o quasi, un uomo (Al Sarraj) non altrettanto forte come il suo rivale e che per di più, come ha affermato il giornalista Fulvio Scaglione, è stato persino “lasciato a bagno maria dai nostri governi”. Parafrasando, è stato preso poco in considerazione. Armarsi di scaltrezza e prudenza sarebbe stata cosa buona e giusta specie in una zona instabile e “imprevedibile” come la Libia. O anche ricordarsi di un antico proverbio arabo (“affida il tuo cammello alla provvidenza di Dio, ma prima legalo ad un albero”) avrebbe potuto aiutare.

Foto copertina © AP

ANTIMAFIADuemila
Associazione Culturale Falcone e Borsellino
Via Molino I°, 1824 - 63811 Sant'Elpidio a Mare (FM) - P. iva 01734340449
Testata giornalistica iscritta presso il Tribunale di Fermo n.032000 del 15/03/2000
Privacy e Cookie policy

Stock Photos provided by our partner Depositphotos