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di Karim El Sadi - Video
A un anno dalla “Grande marcia del ritorno” la Palestina scende prepotentemente in strada
Netanyahu dispiega consistenti forze militari aldilà della barriera

30 marzo 1976, i palestinesi residenti in Israele protestano contro l’annuncio del governo israeliano di aver confiscato 21.000 dunum (5.189 acri) di territorio palestinese. La polizia israeliana reprime violentemente le manifestazioni di protesta, uccidendo 6 giovani Palestinesi e ferendone ed arrestandone molti altri. Da quella volta sono passati 43 lunghi anni ma i palestinesi non hanno dimenticato e non dimenticano quel giorno e tutti quelli difficili che ne sono susseguiti negli anni fino ad oggi. Ovvero il 43° anniversario del "Yom al Ard" (“Giornata della terra”), e al contempo, il primo anniversario della “Grande Marcia del Ritorno”. Per il grande avvenimento i preparativi vanno avanti da settimane, la popolazione è pronta ad una giornata che potrebbe avere sviluppi drammatici come quella del 14 maggio dell’anno scorso quando circa 70 palestinesi trovarono la morte in poche ore dai colpi sparati dai tiratori scelti israeliani. A Gaza in questi minuti le prime 3500 persone si sono già riversate a ridosso delle barriere di demarcazione con Israele per protestare contro l’assedio dello “stato ebraico”. La manifestazione, di fatto, non è ancora iniziata ma già si parla di un morto tra i “gazawi” in protesta, si tratta del vent’enne Mohammad Jihad Sa'ad. Si teme un massacro, scrivono fonti ufficiali, decine di migliaia di palestinesi sono attesi al confine con Israele, centomila azzarda qualcuno. Dove, di tutta risposta, il premier Benjamin Netanyahu ha dispiegato le sue forze militari nelle campagne tra Yad Mordechai e il valico di Erez, con mezzi corazzati, pezzi di artiglieria, rinforzi di fanteria e cecchini. Gli stessi cecchini che insieme ai lacrimogeni lanciati (questa mattina per l’occasione l’esercito israeliano ne sta usando un nuovo modello ancor più irritante e dannoso dal caratteristico fumo giallo) hanno causato un eccidio tra le fila dei protestanti di Gaza dal 30 marzo 2018 al 30 marzo 2019. Le stime non lasciano spazio a interpretazioni. In 365 giorni 267 sono i manifestanti uccisi dai soldati dell'IDF (Israel Defence Forces) di cui 50 bambini, 6 donne e 2 giornalisti mentre i feriti sono 30399, di questi 3175 sono minorenni. Per quelle morti si è espressa poche settimane fa una commissione indipendente delle Nazioni Unite che ha condannato l’IDF, e in particolar modo i tiratori scelti, stabilendo che Israele “ha commesso crimini contro l’umanità nella gestione delle proteste nella Striscia di Gaza”. La Commissione, guidata dall’esperto di diritti umani argentino Santiago Canton, ha sostenuto inoltre che i cecchini israeliani abbiano preso di mira “giornalisti, operatori sanitari, bambini e disabili, nonostante fossero chiaramente riconoscibili come civili”. Tutto ciò però non ha affievolito l’animo degli oltre 2 milioni di abitanti di questo fazzoletto di terra chiamata Striscia di Gaza i quali, al contrario, chiedono con forza la fine dell’assedio, il diritto al ritorno nelle terre conosciute oggi come Israele, così come di porre fine ai 12 anni di embargo imposto su Gaza da Israele ed Egitto. Nel frattempo nei giorni scorsi gli animi tra le due parti, Israele e Palestina, si sono decisamente accesi dopo che un razzo lanciato dalla Striscia ha colpito un'abitazione nel nord della capitale israeliana Tel Aviv. Ma ne il movimento di resistenza islamico Hamas, ne la Jihad Islam, ha rivendicato il fatto che è comunque stato più che sufficiente a Israele come deterrente per giustificare l’ennesima pioggia di bombe su Gaza. Le tensioni, che potrebbero ancora evolversi in escalation, sembrano però essersi acquietate con una bozza di accordo raggiunto tra le due parti con la mediazione dell’Egitto.



Hamas, che di fatto rappresenta una voce autorevole all’interno della sommossa popolare, ha fatto delle nuove richieste al governo israeliano per raggiungere un cessate il fuoco. Tra queste l’aumento delle forniture elettriche a Gaza, l’allentamento delle restrizioni israeliane all’importazione ed esportazione delle merci palestinesi e la ripresa dei trasferimenti di fondi (del Qatar) verso la Striscia. In cambio Hamas dovrebbe fermare il lancio di razzi e tenere lontano dalle linee con Israele le future manifestazioni della "Grande Marcia del Ritorno". Accordo però che non è stato finalizzato. Tra le fila di Hamas trapela pessimismo, come ha affermato un dirigente del partito Ghazi Hamad, riportato dall’agenzia Nena News. “Il movimento islamico vuole un’intesa nero su bianco, con impegni ben definiti per entrambe le parti durante la tregua. Israele non va oltre le promesse verbali, alternandole a minacce di guerra in caso di mancato accordo”. Una percezione pessimistica, quella di Hamad, che ha avuto riscontro con la realtà. E’ giunta qualche ora fa la notizia di un bombardamento aereo nel nord della Striscia di Gaza, un episodio grave che potrebbe mettere la parola fine alla fragile tregua raggiunta ancor prima che venisse stipulata in maniera ufficiosa. Quel che è certo è che l’esito di questa “Marcia del ritorno” sarà fondamentale soprattutto per il premier Netanyahu il quale, nel pieno della campagna elettorale per le elezioni del 9 aprile, non può permettersi passi falsi. Netanyahu, che governa ininterrottamente Israele da 10 anni, questa volta potrebbe rischiare seriamente di non essere nuovamente scelto alla guida del Paese. I suoi principali rivali alle urne, l’ex capo di Stato Maggiore Benny Gantz e l’ex “anchorman” Yair Lapid che hanno fondato il partito centrista “Blu-bianco”, possono contare, oltre a un forte sostegno popolare, anche sulla pesante inchiesta di corruzione che pende al collo di Bibi Netanyahu. Quest’ultimo, per riscattarsi, ha abilmente estratto il jolly dalla manica. Il riconoscimento da parte degli Stati Uniti delle contesissime Alture del Golan non più come territorio “occupato” ma “controllato” da Israele dopo il colloquio alla Casa Bianca con Donald Trump. Una mossa strategica, sia in chiave politica che militare, vista la vicinanza dell’area con la Siria dove gli Stati Uniti hanno annunciato di ritirarsi, o almeno in parte, a seguito della caduta dell’Isis e dove soprattutto i Pasdaran dell’Iran, il nemico n°1 di Israele e USA, continuano a dare man forte per riassettare il Paese. Sono giorni e ore caldissime quelle che stanno scorrendo in Medio Oriente, la conclusione della “Marcia del ritorno” sarà determinante per gli equilibri non troppo futuri nella zona. I manifestanti che stanno partecipando alle proteste aumentano di ora in ora, come rivelano le fonti sul posto, sia nella Striscia di Gaza che nel West Bank. Ciò che chiedono a gran voce è il rispetto degli accordi difficilmente raggiunti negli ultimi 70 anni tra le due parti, quelli di Olso in primis e di conseguenza la possibità di ritornare nelle terre da dove vennero cacciati nel lontano 1948. Il messaggio è chiaro e terribilmente serio “o grandi sulla terra o martiri sotto terra”, costi quel che costi.

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