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bambini aleppo c KARAM AL MASRITesto e foto di KARAM AL-MASRI - Agence France Presse
Karam Al-Masri, 26 anni, è un fotografo dell’agenzia AFP che vive e lavora nella zona di Aleppo sotto il controllo dei ribelli. L’area è colpita quotidianamente dai bombardamenti delle forze di Bashar al Assad appoggiate dalla Russia: Al-Masri è autore di alcuni degli scatti più drammatici arrivati da Aleppo in questi mesi. In questo articolo racconta la sua vita negli ultimi 5 anni, fino ad oggi

Quando scoppiò la rivolta, nel 2011, avevo circa 20 anni. Solo due o tre mesi dopo, fui arrestato dal regime. Rimasi in carcere per un mese intero, di cui una settimana in isolamento totale in una cella di un metro quadrato. Fu duro, ma poi riuscii ad uscire grazie alla prima amnistia, nel 2011. All’inizio della rivolta, c’erano delle manifestazioni pacifiche. Niente bombe. Solo la paura di essere arrestati o dei cecchini per la strada. L’anno dopo, nel luglio 2012, Aleppo fu divisa in due: il settore orientale ai ribelli; il settore occidentale al regime. Nel novembre del 2013, a 22 anni, fui rapito dallo Stato islamico. Ero in un’ambulanza con i miei amici, l’autista dell’ambulanza e un fotografo.
Quell’esperienza è stata peggiore di quella che avevo fatto nelle prigioni del regime. Fu durissima. Il fotografo ed io uscimmo sei mesi dopo, ma il nostro compagno, il soccorritore, fu meno fortunato. Lo decapitarono dopo cinquantacinque giorni di detenzione. Girarono il video e ce lo fecero vedere: «Guardate il vostro amico. Ecco che cosa vi aspetta». Ero terrorizzato, angosciatissimo. In ogni momento pensavo: «Domani toccherà a me, dopodomani toccherà a me».
Ricordo ancora ogni dettaglio. Non ho visto nessun uomo del regime in quella prigione: quelli che erano con me erano ribelli, oppositori, giornalisti. Sono stato torturato in entrambe le carceri. Più duramente dal regime, perché volevano strapparmi una “confessione”. L’accusa che mi rivolgevano quelli dello Stato islamico era completamente inventata: avevo una macchina fotografica, dunque ero un “infedele”. Non avevano nessun bisogno di interrogarmi. Ho perso la mia famiglia all’inizio del 2014, quando ero ancora prigioniero dell’Isis. Un barile di esplosivo fu lanciato contro il palazzo in cui vivevamo: crollò e morirono tutti quelli che ci abitavano, compresi i miei genitori.

Lo seppi solo quando uscii di prigione. I miei amici mi convinsero a non tornare a casa e mi dissero quello che era successo. Seguì un mese di disperazione totale. Quando è iniziato l’assedio, nel 2016, avevo 25 anni. Ma per me, l’assedio è molto meno doloroso del carcere e della perdita dei miei genitori. Prima della rivolta, la mia vita era molto semplice: sono figlio unico, studiavo Giurisprudenza all’università di Aleppo. Oggi non ho più nulla: ho perso la mia famiglia e la mia università. Quello che mi manca di più sono mio padre e mia madre, soprattutto lei. Vivo da solo, non ho nessuno. Ho perso la maggior parte dei miei amici: sono morti o in esilio.

La mia esistenza, da quando sono cominciati i bombardamenti, si riduce a cercare di restare vivo. È come se fossi in una giungla nella quale cerco di sopravvivere fino al giorno dopo. Si scappa dai bombardamenti, dalle bombe-barile. È una fuga costante. L’idea di diventare un cineoperatore mi venne nel 2012. Alle manifestazioni filmavo con il mio cellulare e poi caricavo il video su Internet, per dimostrare che c’era davvero una rivolta, che non si trattava, come sosteneva il regime, solo di una decina persone e di “terroristi”. Nel 2013, cominciai a lavorare come video-reporter freelance con la France Press e gradualmente il mio livello è migliorato: guardavo come lavoravano gli altri, quelli più bravi, e cercavo di imitarli. Prima non avevo mai pensato di diventare un reporter ma con il tempo ho cominciato ad amare questo lavoro.

Avere a che fare con i giornalisti che vivono all’estero, fuori da questa zona assediata, è come una finestra attraverso la quale posso inviare un messaggio al mondo esterno. I massacri e i bombardamenti sono diventati un’abitudine per me, come le immagini dei bambini sotto le macerie, i feriti, i corpi mutilati. Sono cambiato, non è più come prima. Alla fine del 2012, quando ci fu la prima strage, nel vedere un uomo con una gamba strappata mi sentii male e svenni alla vista del sangue. Era la prima volta: ora è una scena abituale per me. Ma la cosa più dolorosa è rivedere la casa dove abitavano i miei. Finora non ho avuto la forza di andarci. Dal 2014, è l’unica zona di Aleppo che preferisco evitare. Non lo potrei sopportare.

Il testo che pubblichiamo è la traduzione di questo racconto fatto da Karam al-Masri e pubblicato dal blog di AFP
(Traduzione di Luis E. Moriones)


Tratto da: La Repubblica
 
La lenta agonia della mia Aleppo

Un padre porta via le figlie da una zona bombardata
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Karam Al-Masri - AFP PHOTO / THAER MOHAMMED

Tratto da:
repubblica.it

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