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samayoa claudiadi Piero Ferrante
Quando parla, usa un misto di decisione e dolcezza, mettendoci quella tenerezza qualcuno, già prima di lei, diceva essere necessaria per combattere la causa degli sfruttati. Le mani che gesticolano senza sosta, la voce lieve ma senza indecisioni, gli occhi scuri puntati sempre dritti davanti a sé, una figura esile ma che non tradisce neppure per un istante tentennamenti. Claudia Samayoa (in foto), in visita a Torino per un evento pubblico organizzato dalle Acli provinciali, si concede a Narcomafie per un’intervista che, più che altro, è un grande appello. A rompere il silenzio internazionale sul Guatemala. Silenzio che genera solitudine, in uno Stato condannato dalla geografia a essere periferia dell’Impero. Ruolo triste, soprattutto se il centro, potente, potentissimo, è lì a un tiro di schioppo. E se quel centro ha nella sua strategia internazionale il controllo del backyard. Dal 2000 la Samayoa coordina l’Udefeugua, sigla che indica l’Unità per la protezione dei difensori dei diritti del Guatemala. Le sue lotte, molte delle quali combattute al fianco del premio Nobel per la Pace Rigoberta Menchù, “spaventano i tiranni”, come avrebbe scritto il poeta Marcos Ana. La Samyoa infatti è anche membro della Convergenza per i diritti umani del Guatemala e la coalizione internazionale di organizzazioni dei diritti umani delle Americhe e dell’Assemblea generale dell’Organizzazione mondiale contro la tortura.

Da gennaio, dopo una serie di vicissitudini politiche, il Guatemala ha un nuovo presidente, Jimmy Morales. Esponente della destra del paese, molto osteggiato dai movimenti sociali, eredita il potere da Otto Pérez Molina, un militare genocida destituito dopo essere stato accusato di vari reati, tra cui corruzione e contrabbando. Com’è la situazione attuale?
Confusa e problematica. Da un lato, per l’influenza, costante e storica, della Dea e della Cia, che puntano a controllare il Guatemala come anche Honduras ed El Salvador. E poi perché l’elezione di Morales ha concorso a destabilizzare ulteriormente la situazione, già precaria, del Paese. Un uomo praticamente apparso dal nulla all’epoca della destituzione di Molina, nel sostanziale vuoto di potere che si era generato, cucendosi addosso i galloni di “alternativo”. In realtà, alternativo non lo è mai stato. Tutt’altro. Morales è un comico di professione, incapace a governare, esponente di una setta fondamentalista evangelica. Va detto che gli evangelici, in Guatemala, non sono un’esigua minoranza, come in altri Stato meso o sud americani. Rappresentano il 35% della popolazione e vi sono arrivati dagli Stati Uniti. Contando su questa forza, e sul fatto che i militari, stanchi di una Chiesa cattolica che ritengono troppo schierata a favore degli ultimi, si sono improvvisamente schierati a loro volta con la componente evangelica, Morales ha potuto salire al potere.
Di più. Oltre che con i militari, il presidente agisce in pieno accordo anche con il potere mafioso e con i settori più retrogradi e reazionari dell’oligarchia economica che ha finanziato la guerra civile e che oggi impera in Guatemala sfruttando la terra e ignorando le richieste delle popolazioni indigene. In questo modo, Jimmy [come viene chiamato dai più in Guatemala, ndR] spera di poter controllare e mettere sotto silenzio le rivendicazioni avanzate dai difensori dei diritti umani. In particolare, nel mirino ha messo la CICIG, la Commissione Internazionale contro l’impunità, voluta dalle Nazioni Unite. Mosse, queste, che hanno infastidito e non poco anche gli Stati Uniti che vedono minacciata la propria influenza in Guatemala e temono di perdere il controllo. Basti pensare che Barack Obama, di recente, ha definito il Guatemala “un pericolo grave assimilabile all’Isis”.

Ha detto che Jimmy Morales è sostenuto da poteri mafiosi. In che senso?
Voglio essere chiara. Da 4 o 5 anni siamo in guerra contro un mostro che si sta difendendo. Il mostro è lo Stato stesso che possiamo senza mezzi termini definire mafioso. Mafioso anche perché violento, torbido, per nulla trasparente. All’indomani della lunga guerra civile, durata 36 anni [dal 1960 al 1996, ndr] e degli accordi di pace che ne sono scaturiti, il Guatemala ha rinunciato a fare pulizia. È accaduto così che la gran parte del personale impiegato nella controinsurrezione ha costituito la base, apicale e armata, del crimine organizzato.
In verità, il confine tra legalità e illegalità è estremamente labile. Stimiamo che la metà dei comuni, il parlamento e la stessa presidenza siano controllati dalla mafia. I militari sono essi stessi mafiosi. I partiti sono in mano alla criminalità organizzata e i loro programmi sono inefficienti. I movimenti di alternativa sociale ci sono ma sono messi al bando, perseguitati, intimiditi e minacciati. Militari, narcotrafficanti e politici, insieme alle componenti del capitalismo più predatorio, lavorano insieme, fianco a fianco.

E allora davvero si può dire che la pace abbia fatto bene al popolo guatemalteco?
Infatti non si può dire. Ha arricchito la Banca mondiale, ha arricchito Washington, ha arricchito molte imprese che hanno investito nel campo idroelettrico, petrolifero ed estrattivo. Specie dopo la ratifica del Trattato di libero commercio. Ha fatto bene ai ricchi, ha fatto bene ai forti. Ma non al popolo. Gli accordi di pace hanno sottomesso il Guatemala agli interessi degli Stati Uniti, il cui ambasciatore si comporta come un proconsole. In Guatemala la pace è lontana. Il Guatemala è uno Stato in guerra. I passi verso il progresso sociale sono estremamente faticosi. Ci sono aperti, indubbiamente, importanti spazi di resistenza. Alcuni settori delle forze dell’ordine e della magistratura si sono schierati contro il crimine organizzato. Grazie a giudici come Claudia Paz y Paz e Thelma Aldana, due donne, per la prima volta nella storia il popolo guatemalteco nutre fiducia nella giustizia, sentando la magistratura come una forza vicina, schierata a difesa dei diritti umani.

Stiamo parlando molto di sistema mafioso. Ma che cos’è la mafia in Guatemala? Com’è la sua struttura?
La mafia guatemalteca è in costante evoluzione. Cambia pelle a seconda del periodo storico e del circuito d’affare più lucroso. Tradizionalmente, il crimine organizzato nasceva per controllare il mercato della droga ed era impostato sul modello calabrese o siciliano, per famiglie. Ogni famiglia operava su una fetta di territorio e ne dirigeva i relativi affari. Col tempo, prima l’esercito (i militari operano in maniera molto simile alle strutture mafiose, facendo leva sull’omertà), poi l’espansione in Guatemala dei cartelli messicani ne hanno modificato la struttura. È scoppiata una guerra intestina tra i due settori, violenta e brutale, che ha portato molti componenti delle storiche famiglie mafiose a far marcia indietro consegnarsi alla giustizia statunitense. Risultato: la mafia si è corporativizzata, dall’organizzazione familiare si è passati a quella per gruppi etnici. Militari e cartelli messicani fanno affari insieme. E in generale, la mafia guatemalteca, quella autoctona, ha innalzato il proprio livello qualitativo, fino al punto da controllare affari anche all’estero. Molti guatemaltechi operano in Honduras, in Nicaragua, in Costa Rica; altri sono elementi di spicco del cartello di Sinaloa, in Messico.

Quali sono i settori d’interesse economico della mafia guatemalteca?
In origine, soprattutto allorquando gli Stati Uniti chiusero la frontiera con El Salvador, il traffico di beni di consumo. Anche sotto questo punto di vista, però, il tempo ha cambiato le cose. C’è la droga, sicuramente. Il controllo della produzione e del traffico. Però la Paz y Paz, qui, ha colpito duro e smantellato le organizzazioni.
Dal Guatemala partono poi le armi che vanno in Honduras e in Salvador. Recentemente, a Madrid, la polizia ha scoperto un container proveniente dal Guatemala e diretto in Palestina carico di armi ufficialmente smesse e che invece erano più che efficienti.
Soprattutto, traffico e tratta di esseri umani, prime voci a bilancio delle mafie guatemalteche, strettamente legate allo sfruttamento del lavoro e della prostituzione. In particolare di donne e minori, anche provenienti dall’Est Europa.

Quando parliamo di mafie e Centro America vengono subito in mente le immagini cruente del Messico. Lei ha detto che il Guatemala ha una forte contaminazione con i cartelli. I metodi di controllo del territorio sono diversi?
La mafia guatemalteca difficilmente ha fatto ricorso, almeno in origine, a stragi come quelle messicane. Le cose cambiano proprio con la penetrazione nel Paese dei cartelli. Sono i narcos a importare la violenza. In particolare il cartello del Golfo, sostenuto da Los Zetas. Le decapitazioni, i massacri, la violenza sono il loro modo di marcare il territorio. Inoltre, servono come pulizia sociale, per irretire chi lotta per il cambiamento. Per noi che operiamo a favore dei diritti umani, invece, queste azioni rappresentano il termometro per misurare lo stato di salute del narcotraffico e della presenza mafiosa.

Esiste un’antimafia sociale?
Dal 2002, in seno alla società guatmalteca sta maturando la consapevolezza che si rende necessario un cambiamento. Sono nati diversi movimenti, per lo più spontanei, che denunciano mafie e malaffare. La maggior parte di questi partono da una posizione radicale contro la corruzione, per poi estendersi anche alla difesa dell’ambiente e dei diritti umani. Quel che serve, adesso, è lo scatto in più.
Da un lato, interno. I movimenti devono perdere il loro spontaneismo e diventare politici. Ma, perché questo avvenga, serve più consapevolezza e una riforma del sistema dei partiti, oggi osteggiata dalle forze al potere, timorose di perdere il controllo. Dall’altro, diventa fondamentale l’appoggio internazionale. L’Europa, purtroppo, ci ha lasciati soli. Il Guatemala è isolato, schiacciato tra una politica interna mafiosa e lo strapotere degli Usa. Molta propaganda tende a sgonfiare le battaglie di questi movimenti. Penso a quelli per la difesa dell’ambiente, dell’acqua in particolare, i più radicali di tutti ma anche i più denigrati. Qualche tempo fa, un esponente della destra guatemalteca, bollò le lotte per la terra e dell’acqua come un complotto del comunismo internazionale. È un pericoloso ritorno al passato, finalizzato a inasprire i toni e lo scontro.

Tratto da: narcomafie.it

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