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aylan c nilufer demir reutersDa settembre annegati 340 bambini
di Niccolò Zancan
La tragedia del bimbo siriano emozionò il mondo e convinse i Grandi ad agire Ma sei mesi dopo quella foto è solo ricordo e il dramma continua nel silenzio

L’hotel Woxxie, 4 stelle con spiaggia privata, è chiuso per bassa stagione. Le alghe ondeggiano sulla battigia avanti e indietro. Ogni tanto, dalla curva spunta un vecchio motorino scarburato, lo senti accelerare via, poi silenzio. Soltanto il rumore del mare. Sul promontorio, la luce del faro segna la rotta per i naviganti. E questa spiaggia, la spiaggia dove è morto Aylan Kurdi, è qui per dimostrare come il tempo sciacqui via tutte le cose.

Era il 2 settembre, non doveva più succedere. Lo avevano giurato i grandi del mondo, con quelle frasi tipiche da telegiornali: «Che la tragedia di questo bambino annegato serva almeno a qualcosa. Non deve succedere mai più». Nel frattempo sono morti almeno altri 340 bambini, due al giorno. E continuano a morire, gli ultimi tre sabato notte. Sulla spiaggia torneranno i turisti. La tragedia non è servita.
Perdonaci Aylan, era tutto sbagliato. Tutto impreciso. Retorico come certi castelli sulla sabbia. Innanzitutto, non era la spiaggia di Bodrum. Ma venti chilometri oltre, in cima al capo. In questo villaggio di villette a schiera ancora in vendita, dove c’è il McDonald’s, Pizza Dominos e un grande cinema. Dove i turisti olandesi e tedeschi vengono ad affollare i mesi caldi, e nelle giornate di mare buono puoi arrivare in Grecia a remi. Il ristorante del faro è gestito dal 1973 dal signor Adil Çürük: «All’inizio sono venuti giornalisti da tutto il mondo. Da Londra e dal Giappone. Poi, più nessuno. Non ho visto politici. E no, non mi hanno più chiesto di Aylan». Sono cinque chilometri. Cinque chilometri da questo punto esatto. Cinque chilometri per l’isola di Kos. Per la Grecia. Per l’Europa, almeno per come l’avevamo conosciuta prima dei muri e delle frontiere selettive.
Cinque chilometri. Aylan Kurdi aveva 3 anni e scappava dalla guerra in Siria con la sua famiglia. Venivano da Aleppo. Avevano provato a chiedere un visto per il Canada, per poter raggiungere i parenti. Ma il visto gli era stato negato. Ecco perché erano qui, con la loro piccola storia esemplare. Ma quella notte il mare era agitato, non come adesso. C’era vento e nessuno sapeva portare la barca. Gli scafisti avevano bevuto. Era buio, le onde squassavano il piccolo scafo. Panico a bordo. Un testimone ha raccontato le ultime parole di Aylan, prima che la barca si ribaltasse: «Papà, ti prego, non morire».

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In foto: 5 chilometri. Il braccio di mare che separa la spiaggia turca dove è stato ritrovato Aylan dall’isola di Kos in Grecia (© Emre Tazegu/AP)


È stato il ragazzo delle sdraio dell’Hotel Woxxie il primo ad accorgersi di quello che era successo. Era la mattina dopo. Poi è arrivato un poliziotto, e con il poliziotto è arrivata la fotografa Nilufer Demir. «Non ho più voglia di raccontare di quella foto, non voglio più dire nemmeno una parola su questa storia» dice adesso con un tono molto triste nella voce. Era la foto che doveva cambiare il mondo.
Tre giorni fa, il tribunale di Bodrum ha condannato gli scafisti che avevano organizzo il viaggio della famiglia Kurdi. Sono due siriani, si chiamano Muwafaka Alabash e Asem Alfrhad. Sono stati condannati a quattro anni e due mesi di carcere. Una madre che era sulla stessa imbarcazione, But Zainte Abbas, in un’intervista alla televisione australiana Network Ten, ha accusato anche il padre di Aylan: «Era lui a portare la barca. Ho perso i miei figli in mare. Ho perso la mia vita. Come fa a mentire al mondo?». Ma Abdullah Kurdi, il padre che non doveva morire, e sventuratamente è sopravvissuto, ha risposto così: «Non è vero. Se fossi un trafficante non avrei pagato come tutti gli altri. Non avrei messo in pericolo la mia famiglia. Ho pensato di prendere il timone, è vero. Ma non l’ho fatto. Ho perso tutto anche io, non ho più nessuno. E adesso vogliono togliermi anche la reputazione».
La mareggiate lavano la riva, buttano giù i castelli. E si ricomincia. «In questo tempo nessuno ha chiesto notizie di Aylan Kurdi» dice Yunus Yaris con la faccia stupita. Gestisce l’Hotel Hortan nel centro storico del paese. Nessuna preghiera. Nessuna commemorazione. «I turisti vengono qui per riposare, hanno il diritto di distrarsi».
Sono passati sei mesi. La Grecia è sempre più tagliata fuori dall’Europa. Altri bambini stanno morendo in mare questa notte. Li ritroveremo domani con la faccia nella sabbia. Identici ad Aylan. Le tre sorelle yazidi: Dlkhos, Bassma e Shreen avevano 8, 12 e 15 anni. Stavano scappando dall’Isis. Erano partite con la madre Fareeda, dopo aver pagato 5 mila dollari ad altri trafficanti. Volevano raggiungere il padre, arrivato in Germania ad agosto. La barca si è capovolta. Solo la madre è sopravvissuta.
Christina Psarra di Medici Senza Frontiere, all’ultimo sbarco sull’Isola di Lesbo, ha dovuto prendere un bambino in braccio. Lo ha raccontato al Mail on line: «È stato troppo straziante. Speravo dormisse. Non riesco a capacitarmi di una cosa del genere». Scappano. Vengono a cercare la pace. Hanno scarpe da ginnastica, magliette con le stelle. Papà non morire. Mamma dove sei? Le luci dell’Europa così vicine, il buio che inghiotte tutto.

Tratto da: La Stampa del 9 marzo 2016

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