di Jean Georges Almendras
Impotenza. Ancora una volta.
Dolore. Ancora una volta.
E’ stata freddata a colpi di pistola la giovane sindaco di una località a sud di Città del Messico, teatro di continua violenza tra bande rivale.
È successo la mattina del 3 gennaio dell’anno appena iniziato.
Si chiamava Gisela Mota ed il mortale attacco è avvenuto solo 24 ore dopo il suo insediamento come primo cittadino di Temixco, nello stato di Morelos.
I volti dei messicani sono segnati dalle lacrime. Ancora una volta. Come una maledizione.
Gisela Mota aveva 33 anni. Ex deputato federale rappresentante del gruppo di sinistra del Partito della Rivoluzione Democratica, da un giorno eletta primo cittadino di Temixco aveva pubblicamente dichiarato che la sua lotta contro il narcotraffico sarebbe stata frontale e diretta.
Una presa di posizione che ha decretato la sua sentenza di morte.
Uomini armati. Quattro sicari dall’anima nera hanno sparato a casa del neo sindaco. Nonostante il pronto intervento della polizia che ha ucciso due dei sicari e catturato gli altri, la vita di Gisela è stata falciata brutalmente e fa male a tutti.
Ma può mai il nostro dolore essere paragonato al dolore in cui sono sprofondati i familiari di Gisela? I suoi amici e collaboratori più cari? O ancora il dolore che ora vive il popolo messicano?
Quel dolore altrui, che noi facciamo nostro, ha - e dovrebbe avere - il volto dell’impegno nella causa che Gisela aveva abbracciato in vita. Un impegno che dovrebbe farci provare lo stesso dolore. Perché? Perché quando viene strappata la vita ad un combattente dello spessore di Gisela, e di tanti altri nella storia dell'umanità, vengono mutilate le vite di tutti coloro che cerchiamo di seguire nelle lotte che stanno portando avanti.
Ed è a quel punto che il dolore si intensifica. Ed è a quel punto che viviamo quel sentimento di indignazione e di rabbia, di fronte ai tragici eventi che continuano ad accadere nel mondo, oltre i nostri rispettivi microcosmi.
Ci chiediamo allora se possiamo fare qualcosa? Se possiamo contribuire a neutralizzare gli ormai quotidiani attacchi contro i nostri?
Mi riformulo la domanda e cerco di convincermi - e convincere te che leggi - che forse sì possiamo fare qualcosa. Perché se non siamo riusciti a fermare i tanti proiettili assassini che hanno falciato la vita di molte persone, in quella cara terra, che da anni non conosce altro che violenza, arbitrarietà e corruzione, forse possiamo creare coscienza oltre le sue frontiere e far capire che quegli attacchi non sono circoscritti al posto dove si verificano.
Allora, cosa possiamo fare ora per quella donna giusta che ha pagato con la vita il suo modo di affrontare la criminalità? Il minimo è renderle onore. Liberarla dalla limitatezza della compassione per renderle invece il giusto e meritato posto nell'elenco mondiale dei martiri. Noi, nel frattempo, continueremo a mobilitarci per far sì che tutti i nostri martiri non finiscano nell’obblio, e rimangano memoria viva.
Non dobbiamo restare indifferenti di fronte a così tante morti, perché l’indifferenza equivale a segnare la nostra complicità con la cultura dell'impunità. Quell'impunità senza frontiere che come una bestia accovacciata sulla società umana è sempre pronta a amicarsi con i potenti - assassini - in giacca e cravatta.
Hanno ucciso Gisela.
No all'impunità, gridiamo ancora una volta.
Perchè questo nostro lutto quotidiano, ci fa ombra, ma allo stesso tempo ci dà forza per continuare la lotta. Se lo vogliamo questo è certo. Altrimenti, redigeremo belle parole, ma in definitiva rimarremo indifferenti. E se non stiamo attenti, presi da questa indifferenza, saremo persino complici dei fiumi di sangue dei tanti giusti assassinati.
* Foto di copertina: Gisela Mota da www.sinembargo.mx
* Foto inferiore: funerale di Gisela Mota da www.sdpnoticias.com
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