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obama-barack-bigIl presidente Usa attacca i repubblicani: se la vogliono, lo dicano Ma il Congresso può bocciarlo, 13 senatori democratici in bilico
di Paolo Mastrolilli - 16 luglio 2015
«L’alternativa era la guerra. Chi la vuole, abbia il coraggio di dirlo». Non poteva essere più esplicito, il presidente Obama, nel difendere l’accordo nucleare con l’Iran. Ora però la battaglia si trasferisce al Congresso, dove la Casa Bianca ha bisogno del voto positivo di almeno 34 senatori per far sopravvivere l’intesa. Al momento, secondo i calcoli fatti dal «Washington Post», i suoi avversari contano su 54 no, e quindi devono convincere 13 rappresentanti democratici nella Camera alta a prendere posizione contro il loro presidente.

L’offensiva mediatica
Obama aveva cominciato l’offensiva per difendere l’accordo già martedì sera, con un’intervista a Tom Friedman del «New York Times», in cui aveva chiesto di valutare l’intesa sulla base della sua capacità di impedire all’Iran di ottenere la bomba atomica, non su quella di cambiare la Repubblica islamica. Ieri pomeriggio ha allargato l’operazione con una conferenza stampa alla Casa Bianca. «La nostra priorità - ha ricordato - era evitare che Teheran costruisse un’arma nucleare, e questo obiettivo è stato raggiunto. Naturalmente io spero che si possa costruire sull’accordo, e avviare una conversazione con l’Iran affinché assuma posizioni meno ostili. Non ci conto, però, e non ci scommetto su». Questo argomento risponde ai critici che volevano un accordo capace di smantellare il programma nucleare, e nello stesso tempo pretendere un cambiamento della linea politica della Repubblica islamica.
L’altro punto contestato è che l’intesa consente a Teheran di conservare le sue capacità atomiche, e ricevere miliardi di dollari finora congelati che potrà usare per sviluppare le sue armi convenzionali, finanziare gruppi terroristici come Hezbollah, e ingerire in maniera negativa sugli equilibri mediorientali. «Non stiamo normalizzando le relazioni con l’Iran», ha risposto il Presidente, e quindi tutto il contenzioso che non riguarda il programma nucleare resta aperto. «Ai critici dell’accordo, però, io chiedo una cosa: qual è la vostra alternativa? Finora non l’ho sentita». La risposta, secondo Obama, è una sola: «L’alternativa era fra la soluzione diplomatica della questione attraverso il negoziato, o quella militare. Se i repubblicani o Israele ritengono che sarebbe stato meglio fare la guerra, lo dicano apertamente».
È vero infatti che Teheran potrebbe violare l’accordo, ma il sistema di ispezioni creato dall’intesa consente di controllarlo come ora sarebbe impossibile e di reagire ad eventuali violazioni, anche se in caso di obiezioni richiederà fino a 24 giorni per poter entrare nei siti contesi. Quanto alle armi convenzionali, le preoccupazioni di Israele e degli altri critici sono legittime, ma per evitare il rischio bisogna potenziare soprattutto l’intelligence e la capacità operativa di bloccare eventuali iniziative minacciose.
L’alternativa qui era lasciare le cose come stavano, e cioè consentire all’Iran di continuare le operazioni di ingerenza e riarmo che già conduceva senza controllo. Obama non si illude che Teheran userà i circa 150 miliardi di dollari liberati per costruire asili, ma questo è un rischio che bisognava correre se si riteneva più pericoloso il programma nucleare. Il presidente si è risentito, quando gli hanno chiesto perché non ha collegato l’intesa alla liberazione dei 4 americani detenuti in Iran: «È assurdo pensare che non ci lavoriamo, ma legare questo tema al negoziato avrebbe consentito a Teheran di usarlo per ottenere concessioni».

La sfida in Congresso
La sfida ora si trasferisce in Congresso, dove i repubblicani sono compatti contro l’accordo. Per fermarlo, però, hanno bisogno della maggioranza di due terzi, necessaria a superare il veto promesso da Obama contro qualunque legge che deragli l’intesa. Le lobby sensibili alle critiche venute in particolare da Israele sono già al lavoro, per premere sui 13 democratici incerti come Bennet, Cardin, Casey, Donnelly, Kaine, Nelson, Warner, Menendez, Wyden, Schumer, affinché voltino le spalle al loro presidente. Hillary Clinton però ha difeso l’accordo e così ha serrato i ranghi del partito, chiarendo che non si può puntare sulla sua vittoria alle presidenziali del 2016 per annullarlo.

Tratto da: La Stampa

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