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mappa asia politicadi Giampaolo Visetti - 14 gennaio 2014
Pechino. Aquasi settant’anni dalla fine della seconda guerra mondiale, sale l’allarme per un conflitto che può riaccendersi là dove si è tragicamente spento. L’Asia è sempre meno pacifica e cresce la preoccupazione per un accumulo senza precedenti di eserciti e di armi di ultima generazione nella regione del pianeta che registra la più sostenuta crescita economica. Mai come oggi si concentrano in Estremo Oriente scontri politici e commerciali, provocazioni tra Stati e contrapposte rivendicazioni territoriali. A moltiplicare il rischio di una nuova “guerra dell’Asia”, la concomitante ascesa al potere di quattro leader nelle potenze cruciali dell’area. In poco più di un anno, tra le fine del 2011 e il marzo 2013, Cina, Giappone, Corea del Sud e Corea del Nord hanno cambiato la propria guida, affidandosi a esponenti conservatori, espressi da forze di destra sempre più nazionaliste, militariste e costrette a fare leva su richiami patriottici e xenofobi. La tendenza, mentre in marzo sono attese cruciali elezioni in India, spaventa sia l’Occidente che gli altri Paesi del Pacifico: a Pechino, Tokyo, Seul e Pyongyang il potere si centralizza sempre di più, diventa ancora più personale, ponendo direttamente nelle mani di pochi leader il destino di poco meno della metà della popolazione e della ricchezza mondiali.

Gli istituti di ricerca hanno già delineato lo spettro del secolo: un pianeta in balìa dei «cattivi maestri dell’Asia», convertiti al neo-autoritarismo nazionalista ispirato al presidente russo Vladimir Putin. La tesi è semplice: mentre le democrazie di Usa ed Europa assistono al declino economico delle potenze che hanno dominato gli ultimi due secoli, gli autoritarismi asiatici favorirebbero la crescita delle nazioni che si apprestano a rivoluzionare gli equilibri globali.
Profeta dei nuovi regimi post-comunisti e delle democrazie sempre più leaderistiche, l’ex spia dei servizi segreti sovietici che ha conquistato il Cremlino, ricostruendo la Russia dopo il crollo dell’Urss. Cancellerie e diplomatici parlano apertamente di “neo-putinismo”, per indicare «il virus che sta contagiando l’intera Asia». I suoi esponenti più influenti sarebbero oggi proprio i quattro leader che negli ultimi mesi hanno seminato scontri e tensioni nel Pacifico: il presidente cinese Xi Jinping, il premier giapponese Shinzo Abe, la presidente sudcoreana Park Geun-hye e il dittatore nordcoreano Kim Jong-un. Solo un anno fa, nonostante le crescenti tensioni, un vertice tra le figure che dominano l’Asia, oltre che necessario, sembrava imminente. Oggi è semplicemente impossibile: Xi Jinping e Shinzo Abe hanno scavato un solco di incomunicabilità, Abe e Park Geun-hye rifiutano di parlarsi, Kim Jong-un si è autorecluso oltre il 38° parallelo a colpi di epurazioni, minacce e atrocità. A far temere che un’Asia meno pacifica possa precipitare in una serie di scontri regionali cronici, se non in una guerra convenzionale, la personalità dei nuovi leader, gli equilibri politici interni e l’esplosione di conflitti antichi e contemporanei.
Il cinese Xi Jinping, vicino all’armata di liberazione del popolo per tradizione famigliare, si trova a governare la riconversione economica e la riforma politica più ambiziose della storia nazionale, nel momento in cui Pechino si appresta a riconquistare la testa del pianeta. L’ascesa della Cina spaventa gli Stati Uniti, potenza egemone dal Novecento, spiazza l’Europa, padrona dei secoli precedenti, attrae Africa e America Latina, ma sta facendo scattare un vero e proprio allarme tra i vicini dell’Asia. L’erede “americanizzato” di Mao Zedong, in pochi mesi, ha sorpreso anche i più pessimisti. Dietro lo slogan delle “riforme”, Pechino ha lanciato la corsa al riarmo dell’esercito più numeroso del pianeta, forte di 2,4 milioni di effettivi, ha varato la prima portaerei atomica e ha aperto conflitti territoriali con tutti i Paesi confinanti, istituendo una nuova “zona di identificazione per la difesa aerea”. Il più pericoloso è quello con il Giappone per il controllo dell’arcipelago delle Senkaku-Diaoyu, dove più volte si è sfiorato l’incidente navale e aereo, fino a costringere gli Usa a riorientare nel Pacifico le forze dispiegate in Europa, Medio Oriente e Asia centrale. Il nuovo espansionismo economico, finanziario e commerciale della Cina, il suo bisogno di materie prime e il preteso monopolio delle terre rare, hanno riaperto però i fronti congelati dal declino dell’impero cinese, alla fine dell’Ottocento. Pechino, nel nome del nazionalismo e del contrasto agli alleati degli Usa, si oppone oggi anche a Corea del Sud, Taiwan, Vietnam, Filippine, Indonesia e India, tracciando un lungo fronte di guerra che va dall’Himalaya al Mar cinese meridionale.
La svolta patriottica di Xi Jinping, costretto a ridimensionare i nostalgici della sinistra neo-maoista e gli interessi dei nuovi poteri privati, si scontra all’esterno con la destra nazionalista di Shinzo Abe, obbligato a ricostruire il Giappone sfibrato da deflazione, crollo demografico e addio al nucleare. Il premier di Tokyo, sostenuto da partiti di una destra sempre più xenofoba, per riaccendere la crescita pretende la revisione dei valori consolidati dalla fine della seconda guerra mondiale. Rallentamento dell’impoverimento nazionale in cambio di diritti: in pochi mesi ha fatto scoppiare lo scontro sulle isole con la Cina, ma pure con la Corea del Sud, ha fatto esplodere le spese militari, lanciato la revisione della Costituzione pacifista del 1945, sfrattato la base Usa di Okinawa e istituito un nuovo consiglio di sicurezza, sull’esempio di quello formato a novembre da Pechino, plasmato su quello ideato degli Stati Uniti nel 1947.
I neo-contrapposti Consigli di sicurezza di Giappone e Cina rispondono a un pericolo sempre meno escludibile: la possibilità dello scoppio improvviso, anche involontario, di incidenti armati tra la seconda e la terza economia del mondo, ormai obbligate a dare risposte in tempo reale ad ogni minima provocazione. Mentre in Cina spopolano i giochi elettronici rossi, in cui gli eroi buoni sono cinesi e i nemici cattivi sono giapponesi, Shinzo Abe il 26 dicembre ha ripetuto il pellegrinaggio nel santuario di Yasukuni, dove sono sepolti 14 criminali di guerra. I nazionalisti che appoggiano il premier, profeta dell’indebitamento pubblico senza fine per rilanciare l’economia privata, li considerano eroi della resistenza. Per Pechino e Seul sono invece carnefici del colonialismo giapponese del Novecento, copia asiatica dell’espansionismo della Germania nazista. La calcolata provocazione di Abe, campione della sindrome di un nuovo accerchiamento del Sol
Levante, ha fatto dimenticare ai giapponesi i primi fallimenti dell’Abenomics, aumentando il consenso verso l’addio al pacifismo di Stato. Il prezzo è però la rottura definitiva con la Cina, l’irrigidimento del gelo con la Corea del Sud e un’irritazione senza precedenti della Casa Bianca, spaventata dalla prospettiva di costi inutili nel Pacifico per arginare l’ascesa di Pechino.
La nuova leader di Seul, figlia dell’ex dittatore Park Chung-hee, assassinato nel 1979 su ordine di Pyongyang, si è vista così offrire l’opportunità di una nuova stretta autoritaria e militarista: in poche settimane, grazie alla minaccia cinese, alle provocazioni giapponesi per il possesso delle isole Dokdo- Takeshima e alla deriva del regime nordcoreano, ha ottenuto dal parlamento conservatore maggiori poteri, nuovi fondi per l’esercito, il via libera a una “zona di identificazione aerea” e altri 800 marines dagli Usa. Mai, da oltre un secolo, l’Asia è stata tanto forte economicamente, così forte militarmente, tanto scossa da scontri incrociati alimentati dal neo-nazionalismo e così spaventata dall’ascesa di una super-potenza come quella cinese.
E al centro dei conflitti, in un continente sprovvisto di istituzioni sovranazionali comuni, autorizzate a ricomporre le vertenze, resta la Corea del Nord del giovane Kim Jong-un. In un anno ha eliminato i consiglieri riformisti, assassinato avversari e parenti, umiliato Pechino e minacciato di bombardamenti atomici Tokyo, Seul e Washington. Pyongyang è dunque la cellula impazzita di un organismo in crisi, consapevole di dover un giorno affrontare diviso l’implosione del regime del Nord, eredità irrisolta della Guerra Fredda e nuova frontiera del confronto Cina-Usa. Mentre Barack Obama in aprile volerà a Tokyo, Pechino e Seul, il mondo teme così che l’Asia 2014 riproduca l’Europa 1914: analogie tra leader, economie, radicalismi, crisi, rivincite, tramonti, nazionalismi, corse alle armi, rancori alimentati dalle propagande. La speranza è di non trovarsi alla vigilia della nuova «grande guerra del secolo»: certo è che in Oriente la pace non guadagna terreno e che anche l’Occidente ormai pare rassegnato al massimo ad una «gestione sostenibile e presentabile di conflitti cronici e strategici».

Parla Elizabeth Economy, esperta del Council on Foreign Relations
“Nessuno vuole conflitti ma il pericolo è reale”
di Paolo G. Brera - 14 gennaio 2014
Il rischio è «un errore di calcolo dalle conseguenze disastrose». Per Elizabeth C. Economy, direttore della sezione Asia del Council on foreign relations, prestigioso think-tank di politica estera, la tensione crescente in Asia sospinta dal nazionalismo e dall’aumento del budget militare è una minaccia aperta.

La situazione può degenerare?
«Nel Mar cinese orientale la tensione è sempre più elevata, e nessuna delle parti coinvolte è attualmente in grado di portare la Cina al tavolo negoziale. Il rischio di un errore di calcolo, di un incidente che porti a uno scontro è concreto, anche se non penso che possa derivarne una guerra. Nessuno dei protagonisti è realmente interessato a una guerra, semplicemente perché non avrebbe nulla da guadagnare».

La tensione sembra una strategia deliberata.
«Ritengo che non ci siano disegni di guerra dei leader coinvolti, ma persiste la possibilità di un incidente che esasperi la tensione crescente. In ogni caso non credo si arriverebbe a una vera guerra».

La disputa è territoriale, commerciale o politica?
«In questo momento è soprattutto territoriale, accesa dal nazionalismo contro cui nessuna delle due porti sta facendo abbastanza. La leadership giapponese ha fatto semmai un tentativo di portare la Cina al tavolo negoziale, ma l’elemento più pericoloso resta il militarismo esasperato. Con le navi cinesi che manovrano in acque rivendicate dal Giappone si crea una pericolosa opportunità di incidente».

Che tipo di ripercussioni avrebbe?
«Nel Mar cinese orientale la Russia, gli Usa e altre potenze sono attivamente impegnate a riportare la questione a un livello negoziale, e a far sì che non possa esplodere una crisi globale. Basta pensare al volume di traffici che attraversa quel mare, è chiaro che non rimarrebbe una questione locale o regionale».

Tra Corea del Nord e Corea del Sud lo scenario cambia.
«Sì, la situazione è molto diversa. La leadership in Corea del Nord è imprevedibile, la comunicazione e il dialogo internazionale sono quasi inesistenti, e non ci sono interlocutori in grado di conoscere e capire la situazione reale. Giapponesi e cinesi non si accusano di lanciarsi missili e distruggersi reciprocamente, come invece ha fatto ripetutamente la Corea del Nord legittimando le preoccupazioni di un conflitto devastante».

Cosa ci sarebbe, in gioco?
«Dipende dalla natura del conflitto, e i temi non mancano. Il fatto è che non ne sappiamo abbastanza per fare previsioni. Se tra Cina e Giappone sappiamo che nessuno ha interesse ad avviare un conflitto, non possiamo dire lo stesso per le due Coree. E non sappiamo neppure se Pyongyang farebbe un passo indietro e accetterebbe una trattativa, di fronte a un incidente: non conosciamo che tipo di leader sia realmente».

Forse possiamo prevederne le conseguenze.
«Sarebbero serissime. Sono alcune delle maggiori economie al mondo, e la Corea del Sud è alleato degli Usa: ci sarebbero conseguenze globali. Il vero pericolo è l’imprevedibilità».

Cosa si può fare per eliminare il rischio?
«Cinesi, mongoli e australiani hanno un coinvolgimento diretto e dovrebbero fare di più, creando una maggiore integrazione».

Ma lei, di fronte a una super offerta di lavoro in Corea del Sud, ci andrebbe?
«L’unico Paese in cui potrei trasferirmi è la Cina, di cui conosco alcune lingue, ma rinuncerei: la ragione però è l’inquinamento

Tratto da: La Repubblica del 14 gennaio 2014

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