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iran-web0di Simone Santini - 24 ottobre 2011
Aveva due soprannomi Mansur Arbabsiar, il rivenditore di auto usate di Corpus Christi (Texas), di origini iraniane, accusato di essere il protagonista del complotto che mirava ad uccidere l'ambasciatore saudita negli Usa. Entrambi i nomignoli dicono molto sul personaggio. Per gli amici era semplicemente "Jack" perché pare che il buon Mansur fosse dedito anima e corpo al Jack Daniel's Tennessee Whiskey.

Per altri era "Facciatagliata" a causa della vistosa cicatrice sulla guancia sinistra, brutto ricordo di una coltellata di molti anni prima. Arbabsiar aveva riportato seri guai neurologici e da quel momento non era stato più lui. Problemi della memoria a corto termine, sbadataggine, confusione mentale. Dimenticava continuamente il cellulare e i documenti di lavoro, secondo i vicini di casa "non era nemmeno in grado di mettersi i calzini dello stesso colore". Insomma, la copertura perfetta per un diabolico agente infiltrato in territorio nemico.

Questa la ricostruzione ufficiale dei fatti. L'11 ottobre 2011 il ministro della Giustizia americano Eric Holder e il capo dell'FBI Robert Mueller, durante una conferenza stampa, rivelano che i servizi di sicurezza statunitensi hanno sventato un complotto per uccidere l'ambasciatore saudita negli Stati Uniti, Adel al-Jubeir, nonché colpire le rappresentanze diplomatiche israeliana e saudita a Buenos Aires. Mansur Arbabsiar aveva un complice in Iran, Gholam Shakuri, ufficiale del battaglione Al-Quds, l'élite dei Guardiani della Rivoluzione, il corpo militare creato dall'Imam Khomeini e che risponde direttamente agli ordini della Guida Suprema, Ali Khamenei.
Arbabsiar aveva pensato di uccidere l'ambasciatore saudita in un ristorante di Washington abitualmente frequentato dal ceto politico e diplomatico della capitale. Allo scopo aveva cercato di assoldare un conoscente per motivi familiari, che lui credeva un narcotrafficante legato al cartello dei famigerati Los Zetas messicani, noti per la loro spietatezza e per aver compiuto diverse stragi indiscriminate con tecniche terroristiche e militari. Ma l'uomo non è quel che sembra, si tratta in realtà di un infiltrato tra i narcos della DEA, l'agenzia antidroga americana.
È il mese di maggio del 2011, l'agente sotto copertura avverte subito del piano terroristico le autorità federali che si mostrano in un primo momento scettiche e invitano il loro infiltrato a dar corda ad Arbabsiar per scoprirne i collegamenti. "Facciatagliata" compie diversi viaggi in Messico e incontra il suo contatto, compie anche sopralluoghi a Washington. Durante una telefonata registrata tra i due, Arbabsiar dice chiaramente di volere usare l'esplosivo per uccidere il principe saudita, anche a costo di compiere una strage: «Loro (a Teheran) chiedono che l'ambasciatore sia "fatto" e se centinaia se ne andranno con lui che vadano a farsi fottere» (Corriere della Sera, 12 ottobre 2011). Per acquistare credibilità Arbabsiar racconta di essere cugino di un generale, Abdul Reza Shahlai, un alto esponente dei Guardiani della Rivoluzione ritenuto responsabile di un attentato in Iraq nel 2007 in cui morirono cinque soldati americani. Quindi patteggia un compenso da 1,5 milioni di dollari per l'operazione e compie il pagamento, tramite il complice Gholam Shakuri, di un acconto con due tranche da 50mila dollari ciascuna con bonifici su banche americane tramite canali riconducibili all'Iran.
A quel punto le autorità federali hanno la prova del complotto e fanno scattare la trappola. Arbabsiar si reca ancora in Messico con un volo da New York il 28 settembre per un incontro in cui si dovrebbero definire gli ultimi dettagli operativi. L'uomo viene però respinto dalle autorità doganali messicane e messo su un aereo di ritorno negli Stati Uniti. Al suo arrivo all'aeroporto JFK è immediatamente tratto in arresto dai reparti antiterrorismo. Arbabsiar confessa dopo dodici giorni di ininterrotti interrogatori e svela l'intera macchinazione. «Un complotto fantasioso quanto una trama hollywoodiana" dirà lo stesso capo dell'FBI Robert Mueller (La Stampa, 12 ottobre 2011).
E in effetti sono in molti a dubitare della ricostruzione fornita dalle autorità americane. Sulla semplice base dei dati, una marea di domande o banali considerazioni si affastellano fino a porre in serio dubbio tutta quanta la cospirazione, fino a far dire all'ambasciatore russo all'Onu, Vitaly Churkin: «Non sono un esperto, ma sembra una storia piuttosto bizzarra» (Corriere della Sera, 13 ottobre 2011).
Cosa non torna? Innanzitutto il profilo di Mansur Arbabsiar non pare quello di un agente cui affidare la più grande operazione di intelligence iraniana all'estero da molti anni a questa parte: troppo pasticcione, improvvisato, inaffidabile. Gli errori commessi paiono infatti degni di dilettanti allo sbaraglio, piuttosto che di un reparto, il battaglione Quds dei Pasdaran, noto per la sua efficienza e dedizione.
Appare poco credibile che per portare a termine una operazione del genere gli iraniani si siano rivolti ad una entità terza, i narcotrafficanti messicani, con cui non hanno alcuna affinità operativa e ideologica. E, a quanto pare, anche una scarsissima conoscenza, visto che sono immediatamente incappati in un agente infiltrato. Sfortuna o madornale sventatezza?
Oltre Arbabsiar anche l'agente di collegamento con l'Iran, Shakuri, avrebbe compiuto un imperdonabile errore quando ha dato corso al pagamento degli acconti lasciando tracce che hanno fatto risalire a Teheran. Non si dimentichi che il paese persiano è sotto sanzioni e le attività finanziarie da e per il paese sono scrupolosamente monitorate quando non sono del tutto impedite.
Su piano strategico ci si domanda quale vantaggio avrebbero avuto gli iraniani dall'uccidere l'ambasciatore saudita negli Usa. Anche ammesso che il piano fosse riuscito, quale risultato pratico ne sarebbe scaturito? Di converso la possibilità di essere scoperti come mandanti avrebbe aperto con ogni probabilità la porta ad una guerra. Nel momento in cui ampie forze negli Stati Uniti, e soprattutto in Israele ma anche presso gli stessi sauditi, attendono solo un pretesto per attaccare l'Iran, ecco che quel pretesto sarebbe stato fornito su un piatto d'argento.

Se, dunque, la ricostruzione ufficiale lascia aperti più interrogativi che risposte, è lecito allargare il campo ad altre ipotesi. La più immediata è che il complotto rientri piuttosto nel novero delle teorie della cospirazione. L'operazione potrebbe essere stata concepita negli stessi Stati Uniti con la manipolazione di uno sprovveduto attore, Mansur Arbabsiar, da parte di agenti provocatori al fine di fare ricadere la colpa sulle autorità iraniane e sfruttare il caso a fini politici e propagandistici, così come sostenuto da tutti i vertici della Repubblica islamica nelle loro dichiarazioni ufficiali.
Oppure, ed è ipotesi molto più suggestiva, che la macchinazione sia effettivamente partita da fazioni di potere interne all'Iran, ma con scopi ben diversi da quelli apparenti, e che abbia trovato una sponda negli apparati di sicurezza statunitensi.
Non pochi analisti hanno interpretato la conduzione di una operazione così raffazzonata come figlia dello scontro di potere ai vertici dell'Iran e per l'uso strumentale della stessa a fini politici interni. Insomma, un complotto congegnato per essere scoperto. È ad esempio questa la tesi di Edward Luttwack, analista americano molto conosciuto anche in Italia: «Ormai c'è quasi una guerra civile in corso tra Ahmadinejad, che nonostante il modo in cui si presenta all'Occidente sta diventando più dialogante, e la guida spirituale Khamenei, a cui fa capo Quds, che è come il braccio operativo della Cia. Ogni volta che in Iran qualcuno ha immaginato il dialogo con gli Stati Uniti, qualche altro è sempre intervenuto per boicottarlo. Lo scopo di questo complotto era proprio creare l'incidente capace di bloccare qualsiasi intesa» (La Stampa, 14 ottobre 2011).
Sulla stessa linea, anche se da una prospettiva diversa, il politologo italiano Vittorio Emanuele Parsi: «Eliminare l'ambasciatore saudita a Washington senza essere presi con le mani nel sacco era un'ipotesi talmente irrealistica che nessuno a Teheran può averla presa seriamente in considerazione. Egualmente impossibile era ritenere che i mandanti non sarebbero stati identificati. [...] Allora per quale motivo Teheran avrebbe scelto una simile strategia apparentemente "suicida"? Credo che la risposta vada proprio cercata a partire da quest'ultimo aggettivo: suicida, perché solo facendo ricorso alla razionalità che guida gli attentatori suicidi è possibile comprendere la logica tutt'altro che irrazionale che ha guidato le mosse di Teheran. L'obiettivo non era quello di colpire senza essere scoperti o identificati; l'obiettivo era quello di riconquistare il centro della scena mediorientale, stanare le eventuali contraddizioni degli Stati Uniti, mutare un quadro strategico che da oltre un anno è sostanzialmente sfavorevole agli interessi iraniani. [...] E che cosa meglio di un complotto volto a uccidere l'ambasciatore saudita a Washington potrebbe rappresentare la "provocazione perfetta"? Se gli Usa dovessero reagire in una maniera giudicata troppo timida, attesterebbero ulteriormente la loro perdita di prestigio nella regione, compromettendo la stessa investitura dell'Arabia Saudita come nuovo leader del Levante e del Golfo. Se dovessero scegliere l'opzione militare dell'attacco selettivo (non esclusa dal presidente) Obama fornirebbe spazio alle accuse iraniane di agire alla stessa maniera del suo predecessore: in maniera muscolare, imperiale, "occidentale" [...] alimentando così la polemica anti-imperialista e antisionista degli ayatollah, a cui le folle arabe continuano a restare sensibili» (La Stampa, 14 ottobre 2011).
In entrambi i casi prospettati, simili scenari implicano un gioco di sponda tra gli oltranzisti iraniani e quelli americani, una perversa comunione di intenti. Di certo se una qualche fazione iraniana puntava alla recrudescenza dei rapporti tra i due paesi, il gioco è perfettamente riuscito. Anzi, la risposta diplomatica statunitense è stata tale da far sembrare che in alcune stanze del potere a stelle e strisce non si aspettasse altro. Così, ad esempio, Barack Obama ha dichiarato durante una conferenza stampa: «L'individuo di origine iraniana-americana implicato nel complotto aveva rapporti diretti, era pagato ed era diretto da individui del governo iraniano, tutte le accuse formulate si basano su prove che stiamo condividendo con gli alleati e la comunità internazionale. Il ruolo dell'Iran in questo complotto non è in dubbio, un comportamento pericoloso e spericolato. Anche se ai livelli più alti non c'era una conoscenza dettagliata del complotto, l'Iran ha una storia di gravi violazioni delle norme internazionali. L'Iran dovrà rispondere di questo ulteriore atto diretto non solo contro gli Stati Uniti ma contro la vita dell'ambasciatore dell'Arabia Saudita» (La Stampa, 14 ottobre 2011).
All'indomani dello scoppio del caso, il vicepresidente Joe Biden aveva invaso tutti i talk-show del mattino dei maggiori network per lanciare anatemi contro Teheran. Da Good Morning America sulla ABC, a The early show sulla CBS, fino a Today della NBC, il messaggio era duro, chiaro e martellante: «Potremmo andare anche oltre le sanzioni diplomatiche, anche se non siamo per ora a questo punto. Nessuna opzione è stata tolta dal tavolo».
Il Segretario di Stato Hillary Clinton, intervenuta a una conferenza del Center for American Progress, dichiarava: «Questo complotto, per fortuna sventato dall'eccellente lavoro dei nostri poliziotti e dei professionisti dell'intelligence, era una violazione flagrante del diritto internazionale e di quello degli Stati Uniti, un'escalation pericolosa dell'utilizzo periodico da parte del governo iraniano della violenza politica e del patrocinio del terrorismo».
Per Carl Levin, senatore democratico e presidente della commissione Forze armate del Senato americano, «il complotto iraniano è un atto di guerra contro gli Stati Uniti d'America» (Associated Press, 12 ottobre 2011).
Se la cospirazione era davvero diretta ad affossare tentativi di dialogo tra alcuni settori americani ed iraniani, non appare un caso che le reazioni più dialoganti siano venute proprio dal presidente Ahmadinejad che ad alcuni giorni di distanza dal caso, con una intervista ad Al Jazeera del 18 ottobre, ha lanciato dei chiari messaggi ad alcuni settori del potere americano: «Stati Uniti e Iran non sono in rotta di collisione verso un inevitabile conflitto. Penso che ci sono persone nell'amministrazione Usa che vorrebbero che ciò accadesse, ma penso che ci sono persone sagge nella stessa amministrazione che sanno che non dovrebbero fare una cosa del genere».
Ahmadinejad si trova stretto in una morsa micidiale, sta conducendo sul filo del rasoio una serrata e incertissima battaglia sul fronte interno per la laicizzazione della Repubblica islamica e tentando al contempo di non cedere alcuno spazio di indipendenza del paese nei confronti delle potenze internazionali. Se davvero qualche nemico interno ha inteso colpire gli spazi di manovra del presidente, essi stanno scherzando col fuoco. La reazione statunitense ha avuto tutta l'aria di una azione di guerra psicologica tesa a creare un clima di allarme verso la propria opinione pubblica in preparazione di eventi prossimi che potrebbero segnare uno spartiacque decisivo verso uno scenario bellico.
In tal senso vanno interpretate le indiscrezioni lanciate dal quotidiano francese Le Figaro ad appena tre giorni dallo scoppio del caso iraniano, in cui si annunciava che a breve sarebbe stato divulgato il «rapporto più duro e più completo mai scritto dall'Agenzia internazionale dell'Energia Atomica sullo stato di avanzamento del programma nucleare iraniano. Rimasta per anni ambigua, poi prudente, l'AIEA, in occasione del suo prossimo consiglio dei governatori, il 17 novembre a Vienna, si appresta, secondo informazioni ottenute da Le Figaro, a denunciare, prove alla mano, il carattere militare di questo programma che punta a dotare l'Iran della bomba».
Il nuovo rapporto conterrebbe una chiara critica nei confronti dell'ex direttore dell'Agenzia, Mohammed El Baradei, accusato di aver sottostimato alcune prove a carico di Teheran al fine di continuare trattative poi rivelatesi infruttuose; punterebbe il dito sulla accelerazione del programma di arricchimento dell'uranio, considerando anomala la quantità di combustibile su cui i tecnici stanno lavorando; lancerebbe l'allarme sulle nuove tecnologie missilistiche iraniane che potrebbero avere come finalità l'implementazione di ordigni nucleari (La Stampa, 15 ottobre).
In realtà questi capi d'imputazione non appaiono per nulla risolutivi. L'accusa a El Baradei di una sua conduzione politica dell'Agenzia pro-iraniana, o quanto meno maggiormente favorevole al dialogo, potrebbe benissimo essere ribaltata sull'attuale direttore Yukiya Amano indicato fin dalla sua nomina come maggiormente disponibile ad assecondare le manovre delle potenze occidentali; secondariamente gli ispettori dell'agenzia hanno la facoltà e il dovere di monitorare la qualità dell'arricchimento dell'uranio da parte iraniana, non la quantità di combustibile prodotto: finché il livello di arricchimento rimane al di sotto del 20%, utile a fini civili, l'Iran rimane nel suo pieno diritto, quale sottoscrittore del Trattato di non proliferazione, di produrre tutto il combustibile che vuole; infine non è certo l'Aiea ad avere capacità di giudizio e indagine sul sistema missilistico iraniano: tali informazioni deriverebbero senza dubbio da altre agenzie di intelligence, la cui attendibilità sarebbe tutta da dimostrare.
Tuttavia, se la diffusione di tale rapporto dovesse essere confermata, ciò significherebbe un mutamento di scenario radicale. Finora, infatti, in Occidente, benché a livello mediatico e diplomatico la volontà dell'Iran di accedere al nucleare militare venga data costantemente per accertata, mai una certificazione in tal senso era giunta dall'unico organo a ciò preposto: l'Agenzia internazionale per l'energia atomica.
È facile intuire quali sarebbero le successive mosse. Le potenze occidentali, Stati Uniti in testa, presenterebbero all'Onu una risoluzione di condanna e, visto il già elevatissimo regime di sanzioni verso l'Iran, c'è da aspettarsi che tale risoluzione chiederà qualunque mezzo disponibile pur di costringere Teheran a interrompere il suo programma atomico. Che tale risoluzione fosse approvata, o che su di essa venisse posto un veto (ad esempio da Russia e Cina), ciò equivarrebbe comunque ad una rottura della diga: Stati Uniti e Israele si sentirebbero in ogni caso legittimati a condurre azioni militari preventive contro l'Iran.

Tratto da: clarissa.it

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