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di Giusi Fasano
Roberto Cannavò, 53 anni, è in libertà condizionale
"Si chiamava Filippo Parisi e aveva 18 anni. Stava aprendo un panificio quando io sono arrivato lì vicino. Ho sparato a uno che dovevo ammazzare ma un proiettile è rimbalzato e ha colpito lui. Era marzo del 1991, a Catania. Ho pianto tantissimo per quel ragazzo. È uno dei miei rimorsi piu grandi. L’ho pensato ogni santo giorno per anni e anni e ancora adesso, nel silenzio della mia cella, di notte, ricordo spesso quella scena. Vedo lo strazio di sua madre che dopo, negli anni del processo, veniva in aula con la fotografia di Filippo sul petto. Mi guardava e io facevo pure lo spaccone. Se ci ripenso... Non avevo ancora capito che cosa fosse il dolore, non avevo ancora imparato a gestire i miei impulsi peggiori, a distinguere il bene dal male".
A questo punto il racconto ha bisogno di un sospiro, una pausa, un sorriso. Roberto Cannavò parla e gesticola. Disegna ricordi nell’aria, percorre le vie tortuose di un tempo che fa parte di lui ma non gli appartiene più: quello in cui è stato assassino, mafioso, scippatore, ladro, rapinatore. Ha 53 anni, Roberto. Nato a Torino ma approdato e vissuto in Sicilia (nel Catanese) da quando aveva quattro mesi. Sta scontando l’ergastolo anche se da due mesi è in libertà condizionale: di giorno fuori a lavorare, di notte obbligo di rimanere a casa. "L’ergastolo è per l’associazione mafiosa e per gli omicidi. - spiega lui - Ne ho commessi tredici. Lo so: se uno mi conosce e mi parla adesso tutto questo sembra pazzesco. Ma è andata così e il passato purtroppo non si può cambiare". Oggi questo Roberto giura che non ha più niente a che vedere con l’altro, l’assassino: "Oggi la parola più bella che io conosca è collaborazione perché per me significa anche verità e la verità è la sola strada che posso percorrere, non me ne importa niente se per qualcuno quella parola vuol dire “infame”. Ho fatto un percorso dentro la mia cella e dentro di me per arrivare dove sono arrivato e ne vado fiero".

Il rimorso
È uno dei miei rimorsi più grandi. La madre ha diritto ad odiarmi, vivo per alleviare il suo dolore
Quel percorso l’ha fatto anche grazie ad Angelo Aparo (psicologo del carcere) e al suo Gruppo della Trasgressione che da anni si occupa proprio dei tragitti umani, chiamiamoli così, dei detenuti. Torniamo al ragazzo della panetteria, al "rimorso più grande": "Il proiettile gli recise l’arteria femorale" racconta Cannavò. "Conoscevo alcuni infermieri dell’ospedale in cui lo portarono. Cercavo di informarmi sulle sue condizioni, ho sperato inutilmente che se la cavasse. Non avrei mai voluto uccidere un ragazzo innocente, nemmeno allora nonostante fossi quello che ero...". Quello che era, cioè "uno che aveva come punti di riferimento miti negativi, assassini, gente che mi faceva sentire grande e potente. Ho cominciato con qualche furto, uno dietro l’altro. Poi rapine. Diventare una pedina della criminalità organizzata è stato un attimo. Io sono stato un affiliato, ho fatto il giuramento a Cosa nostra".

Di tutto quel male per lui è rimasto soltanto il ricordo, alle famiglie delle vittime, invece, è rimasto un dolore inconsolabile. "Adesso ho consapevolezza, non farei mai lo spaccone davanti a quella mamma che mi guardava in aula con la fotografia di suo figlio sul petto" racconta lui. Domanda: ha mai provato a contattarla per dirglielo? Risponde che "ho chiesto la mediazione penale con tutti i parenti delle mie vittime ma non ho ancora avuto risposta. Mi metto a disposizione di queste persone per capire assieme a loro se e come posso alleviare il loro dolore. Non chiedo il loro perdono perché so che sono imperdonabile e semmai mi può perdonare solo Dio. A queste persone, soprattutto alla mamma di quel ragazzo innocente vorrei dire: cerchi di vedere suo figlio con i miei occhi, che sono stati gli ultimi a vederlo. Io non sono più quell’uomo. Ha diritto di odiarmi, se vuole, ma la prego: provi ad abbassare le barriere e cerchiamo di trovare insieme una strada per far vivere un po’ di bene da un dolore così grande. Questo è il mio desiderio più grande".

Se dovesse individuare il punto della svolta, Roberto Cannavò direbbe che "è arrivato con i due anni di isolamento diurno che mi sono fatto dal 2006 al 2008. Due anni senza avere contatti con nessuno, senza uscire mai dalla cella se non per l’ora d’aria... Mi sono fermato completamente. Era tutto immobile attorno a me e dentro di me. È venuta a trovarmi la mia prima figlia, Sonia. Aveva 18 anni. Per la prima volta le ho raccontato tutto quel che avevo fatto e lei per i sette anni successivi non ha più voluto sapere niente di me». A partire da lì «ho cominciato a capire, a riflettere. La mia vita era stata un fallimento totale. Ho pensato e ripensato a quanta determinazione avevo messo nel diventare l’uomo abominevole che ero diventato. Ho capito fino in fondo il significato della parola ergastolo. E allora ho cominciato i percorsi formativi per dare un valore a quei pensieri nuovi. Discussioni di gruppo per guardarmi dentro, dieci anni di teatro-musical, un corso di comunicazione, un docufilm, incontri con i giovani detenuti... insomma, tanta roba. Ed è grazie a tutto questo e a tutto il bene che ho trovato sulla mia strada se oggi non sono più quell’uomo dei primi anni Novanta".

Tratto da: Il Corriere Della Sera

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