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regeni giulio 610Perquisizioni a casa e nello studio. La procura: elementi per fare chiarezza
di Giovanni Bianconi
Alla fine, dopo un tira e molla durato un anno e mezzo, la professoressa Maha Mahfouz Abdelrahman ha accettato di sedersi davanti al pubblico ministero Sergio Colaiocco, che indaga sul sequestro e l’omicidio di Giulio Regeni. E di rispondere a tutte le domande. È accaduto l’altra sera a Cambridge, dove la docente ha conosciuto Giulio diventandone tutor nelle sue ricerche in Egitto e continua a svolgere la propria attività accademica. Erano presenti il suo avvocato - garanzia prevista dalla procedura britannica, nonostante la docente sia solo una testimone - e il giudice inglese che ha dato esecuzione all’ordine investigativo internazionale chiesto e ottenuto dalla Procura di Roma. Ma dopo le generiche conferme di altrettanto generiche affermazioni rese in passato direttamente o per posta elettronica, di fronte a specifiche domande che avevano il tono di precise contestazioni la professoressa ha cominciato a snocciolare molti «non so» e «non ricordo». Compresa la circostanza del regalo del libro Gomorra da parte di Giulio.

Troppe amnesie, secondo il pm romano, a conferma delle precedenti «reticenze». Così ieri mattina Colaiocco s’è ripresentato, insieme a un carabiniere del Ros e a un poliziotto del Servizio centrale operativo, con un decreto di perquisizione già controfirmato dai colleghi britannici; era l’autorizzazione a setacciare la casa e l’ufficio della Abdelrahman, alla ricerca di «cose pertinenti al reato necessarie per l’accertamento dei fatti, ossia computer, telefono cellulare o pen drive che dovessero essere nella sua disponibilità».

La sorpresa e il turbamento mostrati dalla professoressa non hanno fermato l’operazione, eseguita nel tentativo di «sanare le contraddizioni» rilevate dagli inquirenti tra le reiterate dichiarazioni e alcuni indizi emersi dal computer di Regeni. In particolare: una conversazione via skype tra Giulio e la madre del 26 ottobre 2015; una chat tra il ricercatore friulano e un suo collega del 15 luglio precedente; e una e-mail inviata da Giulio il 7 gennaio 2016. Data cruciale: il giorno prima c’era stato l’incontro tra Regeni e il sindacalista degli ambulanti Mohammed Abdallah (che registrò il colloquio su richiesta dei poliziotti egiziani, ai quali subito dopo consegnò l’intercettazione), e proprio il 7 l’appuntamento tra Giulio e la professoressa. Secondo gli inquirenti italiani, «vi è fondato motivo di ritenere» che nella riunione del 7 gennaio «Regeni abbia consegnato alla sua tutor i dieci report relativi alla “ricerca partecipata”, effettuata al Cairo tra l’ottobre e il dicembre 2015». Ma la docente nega.

Diciotto giorni dopo, il 25 gennaio 2016, Giulio che era seguito dagli uomini della National security egiziana è stato rapito, per essere abbandonato cadavere, sul ciglio di una strada, il 2 febbraio. Perché? Le risposte vanno cercate al Cairo, ma i rapporti tra il ricercatore e la sua tutor, l’individuazione dell’oggetto della ricerca e della supervisor in Egitto restano passaggi intermedi che possono trovare spiegazioni a Cambridge. La denuncia di Abdallah, ad esempio, avvenne dopo il contrasto creatosi fra i due sul finanziamento da 10.000 euro che la fondazione britannica Antipode poteva far avere al sindacato degli ambulanti, e sempre dal computer di Regeni sarebbe saltata fuori una traccia secondo cui l’idea di quel finanziamento sarebbe stata proprio della professoressa Abdelrahman.

Pure su questo punto la docente avrebbe detto di non ricordare: un’altra dichiarazione che non è servita a «sanare le contraddizioni» rilevate dagli investigatori italiani in quasi due anni di lavoro, e per questo è scattata la perquisizione. Una nota diffusa dall’ufficio guidato dal procuratore Giuseppe Pignatone spiega che i supporti informatici e i documenti acquisito ieri «saranno utili a fare definitiva chiarezza, in modo inequivoco e oggettivo, sul ruolo della professoressa nei fatti d’indagine». Tra il materiale da analizzare ci sono anche le risposte ai questionari distribuiti a 66 tra studenti e ricercatori di Cambridge che hanno lavorato in Egitto tra il 2010 e il 2015, ottenute grazie alla collaborazione fornita dall’università.

Corriere della Sera

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