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pif 2di Mario Di Caro
Nelle sale arriva “In guerra per amore”, secondo film del regista palermitano. «Se dovessi rivedere “La mafia uccide solo d’estate” con gli occhi di un ragazzo, mi sentirei stimolato a partecipare alle manifestazioni antimafia. La lotta alla mafia è una guerra e qualunque strumento è buono per combatterla. Il sorriso sdrammatizza, attrae più persone. L’importante è che la lettura non sia superficiale. Magari fra i duri e puri dell’antimafia qualcuno dirà che sono un intruso, ma va bene così. Io voglio solo partecipare. Noi tendiamo a mitizzare gli eroi antimafia e questo ci crea un alibi, invece più li vedo umani e più li sento grandi, significa che anche noi possiamo essere come loro. Vivere la stagione delle stragi a 20 anni è un’esperienza che ti segna perché hai ancora l’incazzatura del ventenne che non si vuole rassegnare. Io oggi ho 44 anni, faccio parte di quella generazione che ha vissuto il prima e il dopo e capisco che sto assumendo il ruolo di quello che dovrebbe raccontare quello che è successo. A Palermo sto troppo poco per capirla. Ho l’ottimismo di quello che vive fuori.

«Io ho studiato dei libri, so che incontrerò delle ostilità, ma dal punto di vista dell’onestà intellettuale so di essere a posto. È sbagliato dire che la mafia chiese il permesso prima dello sbarco in Sicilia ma sicuramente la mafia ha fatto il salto di qualità da allora, è diventata politica, vennero fuori i sindaci mafiosi come Genco Russo. Gli americani fecero della Sicilia un laboratorio che poi ripetereranno negli anni successivi. Io non ho inventato nulla. Il film si chiude col rapporto del capitano Scotten del ’43 che avvertiva come il pericolo della mafia avrebbe portato conseguenze negli anni. Un documento che legittima il mio ragionamento».

Un sorriso sulla mafia può essere più efficace delle fiaccole di un corteo?
«Credo che serva tutto in questa lotta. Se dovessi rivedere “La mafia uccide solo d’estate” con gli occhi di un ragazzo, mi sentirei stimolato a partecipare alle manifestazioni antimafia. La lotta alla mafia è una guerra e qualunque strumento è buono per combatterla. Il sorriso sdrammatizza, attrae più persone, e, non dovrei dirlo io, funziona. L’importante è che la lettura non sia superficiale».

Ma c’è il rischio che nella trincea dell’antimafia la vedano come un intruso in un mondo che racconta di sangue vero?
«Chi mi conosce no, e avrà visto una naturale evoluzione dalla televisione al cinema. Magari fra i duri e puri dell’antimafia qualcuno lo dirà che sono un intruso, ma va bene così. Ma io non voglio essere protagonista della lotta, io voglio solo partecipare».

Vedendo il finale del documentario su Saviano, lei sembra ossessionato dalla grandezza di chi resiste alla mafia ma anche dalla loro “normalità”.
«È un ragionamento che cerco di fare da un po’. Nel primo film ho raccontato Chinnici non mentre lavorava ma mentre stava andando a lavorare, Boris Giuliano lo mostravo al bar mentre mangiava una iris come potrebbe farlo chiunque. Giuliano, uno dei poliziotti più in gamba, è stato ucciso mentre prendeva un caffè, la cosa più umana e naturale di questo mondo, perché era una persona normale. Noi tendiamo a mitizzarli e questo ci crea un alibi, invece più li vedo umani e più li sento grandi perché significa che anche noi possiamo essere come loro».

Lei si sente un figlio del’ 92, l’anno delle stragi?
«Assolutamente sì»

Ma cosa le ha lasciato dentro quella stagione di piombo?
«Vivere quella stagione a 20 anni è un’esperienza che ti segna perché hai ancora l’incazzatura del ventenne che non si vuole rassegnare. Miriam Leone, mia partner nel film, che oggi potrebbe essere mia moglie, nel ’92 aveva 7 anni e ha vissuto solo il “dopo”. Io oggi ho 44 anni, faccio parte di quella generazione che ha vissuto il prima e il dopo e capisco che sto assumendo il ruolo di quello che dovrebbe raccontare quello che è successo».

Oggi invece com’è cambiata Palermo? È tornata distratta?
«Palermo non la vivo, ci sto troppo poco per capirla. Ho l’ottimismo di quello che vive fuori e quando arriva si sbafa tutta la ricotta che incontra, come un turista. Dagli anni Ottanta a oggi le cose sono cambiate anche se vedo sempre una difficoltà quotidiana. Combatto il pessimismo che ci uccide e che abbiamo dentro. Bisogna puntare il dito contro  noi palemitani più che sul politico che noi abbiamo eletto. Io non sono contro la Statuto siciliano ma contro noi siciliani che abbiamo gestito male un’opportunità eccezionale».

A Silvana Saguto, magistrato che gestiva i beni sequestrati ai mafiosi, sono stati sequestrati i beni (ride, ndr): è un’antimafia da ridere?
«L’esperienza insegna che ci vogliono i simboli, sì, ma noi stressi dobbiamo diventare leader della nostra lotta antimafia, nessuno deve dare una delega a nessuno. Se c’è “il” regista antimafia, “il” commerciante antimafia, è sbagliato. Non dobbiamo stare affacciati alla finestra per vedere chi vince la corrida, come diceva Falcone. È troppo facile, allarghiamo il recinto dell’antimafia e mettiamo dentro tutti, tutti i registi, tutti i commercianti, se siamo tutti dentro questo recinto ci potrà essere anche qualche errore ma non grave come quelli che abbiamo visto».

Lei si sente un regista impegnato?
«È molto scivoloso dire che sono un regista impegnato. Io sento la responsabilità di questa etichetta ma rischia di diventare una colpa, una croce addosso. L’etichetta alla fine toglie responsabilità agli altri. In questo paese si fa più fatica ad essere onesti che superficiale ».

Mafia, eroi antimafia e adesso anche Lampedusa: perché la Sicilia è sempre più protagonista nelle fiction tv?
«Sicuramente la Sicilia ha molto da dire. Il fatto che sia stata fatta solo ora una fiction su Giuliano, che è morto nel’79, però, è scandaloso. La Sicilia è terra di passioni, di sentimenti estremi e dal punto di vista cinematografico o televisivo non può che essere accattivante. La mafia è la nostra tragedia greca».

A parte sbafare tutta la ricotta che trova, cosa fa e dove quando torna a Palermo?
«Quando vengo a Palermo cammino molto a piedi, è un rito, così come è un rito arrivare dall’aeroporto in pullman e sedere nel posto lato mare. Poi quando vedo il traffico che si forma tra le 7,30 e le 8 davanti Villa Sperlinga mi ricordo quand’ero ragazzo: paradossalmente anche gli aspetti negativi della città diventano motivo di nostalgia quando non si vive più qui. Il mitico traffico di Palermo diventa nostalgia»

Tratto da: La Repubblica

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