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ti-raccontero-tutte-le-storie-che-potroOltre quella porta non si andava mai
di Attilio Bolzoni - 3 novembre 2013
Il figlio dice che la madre «ha fatto un bel regalo a tutti noi» lasciandoci queste pagine. Dentro ci sono i segni delle sue tante vite, prima e dopo il 19 luglio del 1992. E con tenero stupore ammette che neanche loro — lui, Manfredi, e le sue sorelle Lucia e Fiammetta — conoscevano certi dettagli sul padre. Agnese non ha voluto tenerli solo per sé. Poi parla del libro, che non è una biografia e non è una raccolta di testimonianze ma «il tuo ultimo atto d’amore verso papà». Manfredi lo chiama con il nome per intero, come ogni tanto piaceva chiamarlo anche a me sul giornale quando era vivo: Paolo Emanuele Borsellino. Quell’Emanuele che era riportato sulla carta d’identità e si palesava a sorpresa in qualche bigliettino di ringraziamento e molto di rado sugli atti giudiziari che firmava, mi ha sempre incuriosito. Ma al giudice non ho mai chiesto nulla su quel suo secondo nome, che a volte c’era e tante altre volte invece spariva.
«Non ne so molto nemmeno io di quella sua firma che occasionalmente cambiava, però nella presentazione del libro mi è venuto istintivo scrivere Paolo Emanuele Borsellino… E poi avrei voluto chiamare Emanuele il mio secondo figlio, ma è arrivata una bimba», racconta Manfredi mentre esprime ancora meraviglia per «quelle confidenze» che la madre, nei suoi ultimi giorni, ha voluto consegnare a Salvo Palazzolo.
Manfredi Borsellino fa il poliziotto, commissario a Cefalù. In questi anni, ci siamo ritrovati di tanto in tanto a conversare e soprattutto a ricordare. Di solito in via Cilea, a Palermo, nella casa dove abitavano il giudice, la signora Agnese e loro, i figli. L’ultima volta nella primavera scorsa, un pomeriggio. In cucina c’era la madre sulla sedia a rotelle, accudita amorevolmente da due infermieri. Manfredi le girava intorno, lei lo guardava e gli sorrideva. Sembrava fragile a vederla così, tormentata dalla malattia. Ma Agnese è sempre stata una donna siciliana di coraggio, non si arrendeva mai. «Mamma ha una voglia di vivere incredibile», diceva Manfredi che intanto mi aveva già trascinato sul divano del salone aprendo i cassetti più nascosti, quelli dove conserva le foto di famiglia.
Il matrimonio di Agnese e Paolo a Villa Igiea, dicembre 1968. Papà e Manfredi in vacanza a Tropea, estate 1981. Papà e Fiammetta a Palermo, metà anni Settanta. Papà e Lucia al Parco nazionale d’Abruzzo, fine anni Settanta. E poi tutti insieme all’Asinara, agosto 1985, quando Paolo Borsellino e Giovanni Falcone — con figli e mogli — vengono deportati e rinchiusi per venticinque lunghissimi giorni sull’isola sarda del supercarcere. Motivi di sicurezza, dall’Ucciardone era arrivata la soffiata che i boss avrebbero voluto uccidere i due giudici, «prima l’uno e poi l’altro». Come è avvenuto sette anni dopo.
Via Cilea, una lunga fila di palazzi tutti uguali, a metà strada la «zona rimozione auto» per il pericolo di attentati. La prima volta ci sono andato tanto tempo fa, nel 1986 o forse nel 1987, si stava ancora celebrando il maxi processo a Cosa nostra. Era sera, molto tardi. Paolo Borsellino ha aperto la porta e sono entrato in una stanza piena di fumo, una sigaretta che bruciava ancora nel posacenere e l’altra già fra le dita, i calendari dell’Arma dei carabinieri alle pareti, i fascicoli — con dentro appunti dei suoi incontri e ritagli di giornale — tutti in ordine sulla piccola libreria a muro.
Della casa di via Cilea, per anni ho conosciuto soltanto quella stanza: lo studio del giudice. Geloso della sua intimità familiare, Paolo Borsellino non mi ha mai fatto varcare la vetrata che divideva lo studio dal salone. Ho sempre immaginato quella stanza come una casa nella casa, quasi fosse staccata dagli altri ambienti. La signora Agnese e Manfredi, molto tempo dopo, avrebbero confermato la mia sensazione svelandomi un piccolo segreto. Quella stanza — lo studio del giudice — apparteneva in origine alla casa accanto e i Borsellino, avendo la necessità di allargare il loro appartamento, l’avevano successivamente acquistata dai vicini.
Ma sono altri e più intensi, i ricordi e i «segreti» che la signora Agnese ha deciso di affidare a Palazzolo per il loro libro. Già il titolo, Ti racconterò tutte le storie che potrò, scopre in copertina chi era Paolo Emanuele Borsellino.

Tratto da: La Repubblica

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