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giornalistiminacciatidi Carlo Muscatello - 9 marzo 2015
“Mi dicono che qui all’inaugurazione dell’anno giudiziario si parla sempre di Trieste come di un’isola felice. Quasi un’operazione di copia-incolla anno dopo anno. Ebbene, mi sembrerebbe molto strano che questa città fosse l’unica al mondo senza mafia. Chissà, forse è solo un problema di magistrati e investigatori disattenti…”.
Attilio Bolzoni, scrittore e giornalista, firma storica di Repubblica su cose di mafia e di Sicilia, ha chiuso con queste parole – accompagnate da un sorriso malizioso – il dibattito seguito alla presentazione triestina del docu-film “Silencio”, che ha realizzato con Massimo Cappello. Una proiezione organizzata all’Auditorium del Museo Revoltella dall’associazione triestina di “Libera”, con la collaborazione del Comune di Trieste (la vicesindaca e giornalista Fabiana Martini ha condotto il dibattito finale, al quale hanno partecipato anche Cappello e don Tonio Dell’Olio, responsabile del settore internazionale di “Libera”) e con il patrocinio dell’Assostampa del Friuli Venezia Giulia.
Il docu-film, prodotto dall’Associazione stampa romana e dalla Fondazione Musica per Roma, è un’opera di grande valore civile. Parla di Messico e di Calabria, di narcos e di ‘ndrangheta. Ma parla anche di decine di giornalisti seviziati, uccisi, fatti sparire nel nulla senza che venisse mai identificato un colpevole, nelle terre dei lussuosi resort di Playa del Carmen, dove un italiano su tre ha a che fare con la malavita. E parla di altrettanti giovani cronisti calabresi finiti nel mirino della criminalità organizzata perchè hanno cominciato a dare fastidio al capoclan o al potente di turno. O semplicemente perchè hanno smesso di fare da cassa di risonanza ai potenti e hanno scelto di fare il loro lavoro con onestà. O ancora perchè hanno cominciato a chiedersi “perchè?”. “Porqué?”, ovvero la regola più importante di quella anglosassone delle “5 W”, che i “reporteros” messicani hanno insegnato a Bolzoni nel viaggio compiuto nella primavera dell’anno scorso, dal quale ha avuto origine “Silencio”.
“Da tempo – dice il giornalista – volevo dedicare un servizio ai giornalisti uccisi in Messico. Prima di partire ho studiato a lungo le storie di queste persone apparentemente ingoiate dal nulla, ma la situazione che ho trovato laggiù è decisamente più grave di quella che mi ero immaginato. Ne hanno uccise ottantuno negli ultimi quattordici anni. E altre sedici sono scomparse. E non c’è mai un colpevole. La cosa più grave è che nel 65 per cento dei casi, i killer non sono i narcos”.
E poi la nostra Calabria, terra splendida e sfortunata. “C’è un collante – prosegue Bolzoni – tra queste due realtà distanti geograficamente ma non per mentalità: la presenza di una criminalità radicata, ramificata, che condiziona la vita delle persone. Fare il giornalista in alcuni luoghi è pericoloso. Perchè se solo si osa rompere il muro di omertà, si finisce male. A causa delle verità che scrive, Anabel Hernàndez è costretta a vivere sotto scorta. In Calabria ci sono colleghi giovanissimi che raccontano quotidianamente la ‘ndrangheta, le storie dei preti che resistono e di chi cede. Vivono con il fiato sul collo”.
Nel Messico di Anabel Hernàndez e Diego Enrique Osorno, nella Calabria di Michele Albanese e di Giovanni Tizian, nelle terre di tanti cronisti coraggiosi che vengono intimiditi e a volte uccisi o fatti sparire. Perchè la mafia, anzi, le mafie sono ovunque. Anche nei luoghi, nelle città che soltanto a un occhio distratto e disattento possono sembrare delle isole felici, delle oasi di tranquillità e legalità.

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