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messina vista dallaltodi Enrico Di Giacomo
L’uscita del libro del pentito Iano Ferrara (MAFIA, IL CEP DI JANO), da giorni in vendita su un sito realizzato per l’occasione janoferrara.it e una pagina Facebook (facebook.com/ilbossbuono), ha fatto tornare in mente diverse pagine buie di questa città purtroppo da quasi tutti dimenticate e da tantissimi, anche per un fatto anagrafico, mai conosciute. Il pretesto del libro che, lo precisiamo per non lasciare dubbi alcuni, abbiamo tra le mani da semplici lettori e senza nessun interesse diretto, ci ha dato l’opportunità di rendere pubbliche a più persone possibili l’anima nera, oscura, cinica con cui la città per lunghi anni venne governata da pochi come ‘cosa propria’. Ed è a tutti quei nostalgici del ‘si stava meglio quando si stava peggio’, che mi rivolgo. Le storie raccontate dall’ex boss di Messina sud che leggerete di seguito sono la narrazione di una Messina sporca, lurida nell’anima, ammalata. Sembrano storie del passato ma la Messina di oggi è anche figlia di quella Messina lì. Alcuni protagonisti dei racconti vivono ancora, qualcuno non c’è più. Ma di tutti rimangono gli scheletri. O forse soltanto qualche ossa. Perché dovete sapere, tra le altre cose, che quasi nessuno di questi potenti di cui leggerete ha subito una condanna, alcuni addirittura neanche un processo. Quanta impunità. Il marcio dei Palazzi unito in un abbraccio mortale. Il verminaio appunto. Boss ‘in luna di miele’ agli arresti ospedalieri, poliziotti compiacenti per qualche film in cassetta, uomini d’onore che incassavano favori da magistrati in cambio di serate di sesso con prostitute di lusso, regali di valore, posti di lavoro, bische che vedevano allo stesso tavolo mafia, politica, massoneria, magistratura, forze dell’ordine, servizi segreti deviati. La Messina di oggi è povera, spenta, umiliata, depressa per decenni di razzia e assalti alla diligenza. Ci facevano credere altro, ci regalavano un concerto in piazza al giorno nascondendoci che quei concerti li pagavamo noi con centinaia di milioni di lire di contributi pubblici regionali, ci facevano vedere lo stadio pieno e assaporare la serie A ma non ci raccontavano degli accordi sottobanco per vendersi le partite, ci mostravano una città ricca di fioriere facendocela credere una ‘città giardino’ per poter favorire le ditte del settore. Facevano castelli, costruivano autostrade e ‘parlavano con Pablo’. Anche loro tradivano, ‘con le donne, il vino e la Svizzera verde’. La Svizzera soprattutto. Quanto denaro. Ma erano soltanto porci che regalavano perle, il trionfo del disvalore. Iano Ferrara con il libro, ha soltanto aperto vecchie ferite sanguinanti come quelle mai curate del rapporto tra mafia e politica. Un rapporto stretto, apparentemente alla pari. Dove poteva accadere che un sottosegretario agli interni, si agli interni, come abbiamo raccontato la volta scorsa, sempre secondo i racconti del collaboratore di giustizia, parlasse con un boss latitante per poi finire sotto ricatto. Nei primi anni novanta poteva accadere che un assessore venisse convocato da un boss perché scontento di alcuni disservizi nel proprio quartiere, desse ordini e promettesse in cambio l’appoggio elettorale. Nei primi anni novanta poteva accadere che un sottosegretario agli interni, si agli interni, ricevesse nella sua villa privata un galoppino del boss a cui erano state fatte delle promesse non mantenute per chiarire la vicenda. Poteva accadere che un sindaco ordinasse un progetto agli uffici comunali per un ippodromo su input del capomafia. Nei primi anni novanta, ma anche prima, Messina, il suo Municipio, il Palazzo di Giustizia erano molto diversi. E diverso era il contesto in cui una amministrazione prendeva importanti decisioni per la città. Spesso si governava condizionati dal fiato sul collo dei boss di quartiere (che addirittura entravano nelle stanze del potere senza neanche bussare) che senza alcuna remora tenevano sotto scacco una intera classe politica. Con cui fare affari. Tanti affari. Alle spalle di una città destinata a essere defraudata, svenduta, rapinata, stuprata, umiliata. Non dico che la Messina che viviamo è immune da tutto questo. I cromosomi restano. Come lo scempio provocato. Ma Messina ha anche avuto la fortuna, in questi ultimi anni, di essere stata sfiorata, in alcuni casi come in quello dell’amministrazione della giustizia, rivoluzionata, stravolta dalla presenza di uomini delle istituzioni che hanno riscattato una intera città. Oneste, preparate, di altissimo livello etico e morale come il giudice Sebastiano Ardita. E che però sta andando via. E lo dobbiamo dire senza sembrare ipocriti, senza nasconderci per il timore di essere tacciati come di parte. E’ un dato di fatto che se i racconti di Ferrara sulla gestione di Palazzo Zanca sembrano ormai pagine sbiadite di un vecchio romanzo criminale è anche merito della presenza di un uomo al comando di un Municipio che ha fatto dei valori dell’antimafia la sua forza. E che però è ai suoi mesi finali da primo cittadino. Poi si, è vero, c’è tutto il resto. C’è il passato che ritorna o che non se n’è mai andato. Un voto di scambio sempre più ‘necessario’, le istituzioni come bancomat, milioni di euro in arrivo, burocrati prezzolati, rappresentanti dei partiti indegni, una società civile sempre più timida e stanca, un giornalismo ridotto alla fame. Colpi di coda. O solo l’inizio della restaurazione. Buona lettura.

Agli arresti ospedalieri come in hotel
“Durante la detenzione mi venne un’infezione all’occhio detta uveite, una brutta infiammazione per cui mi dovettero ricoverare all’ospedale. Grazie al mio modo di fare e alla mia fama mi conquistai da subito la fiducia di tutti, dai poliziotti, in primis, a tutto lo staff del reparto medico che mi tenne ricoverato per quindici giorni. Per me che stavo in carcere da un anno e mezzo, fu un periodo di villeggiatura! Mia moglie dormiva con me nella mia stanza e durante la giornata ricevevo visite di tantissimi amici e conoscenti. Mi portavano di tutto: pranzi e cene completi che consumavano insieme a me. Era tutto allegro, come se ci fosse una gran festa: le bottiglie di vino si consumavano come se fossero state d’acqua! In tutto questo trambusto scappare non mi sarebbe stato difficile, ma non pensai un solo istante di approfittarmi della fiducia che i poliziotti mi avevano dato e mi stavano dando. Non misi a repentaglio il loro posto di lavoro, piuttosto misi a loro disposizione una televisione, un videoregistratore e tanti film in cassetta per farli stare a loro agio. In quel momento avevo tre mandati di cattura con due processi in corso: il pubblico ministero mi aveva inflitto 9 anni per spaccio di droga mentre nel maxiprocesso mi aveva inflitto 18 anni e 6 mesi, la più pesante del mio gruppo”.

Nel 1987 diventa il re del Cep
“Un paio di mesi dalle dimissioni dal ricovero, scaddero i termini di un mandato di cattura e subito dopo anche quelli del maxiprocesso, rimasi tuttavia in carcere per l’ultima accusa pendente, 9 anni per spaccio di droga. Non molto tempo dopo venni assolto anche da quest’ultima e scarcerato subito dopo la sentenza. Così dopo due anni di detenzione, lasciai il carcere alle due di notte e feci ritorno a casa. Siamo nel 1987. Decisi di tenermi fuori da tutto quello che stava accadendo a Messina e curarmi solo di quello che riguardava la zona sud e il mio quartiere”.

MAFIA E POLITICA
“Per prima cosa allacciai dei rapporti con personaggi politici che mi consentirono di aiutare, in cambio dei voti, le persone del mio quartiere. Durante una campagna elettorale per le politiche nazionali venni a conoscenza che il sindaco di Messina, Antonio Andò della DC (Antonio Andò è stato eletto sindaco di Messina nel 1976 – fino al maggio 1987 -, aveva 29 anni, il più giovane sindaco d’Italia in una città capolugo. Nell’87 si dimise da sindaco perché eletto senatore della Democrazia Cristiana, nel collegio di Messina, il più giovane di quella legislatura: aveva 40 anni. Figlio di Oscar Andò, anch’egli sindaco di Messina e primo presidente della società Stretto di Messina. Nel 1992, dopo tanti anni di politica ad alto livello, Andò preferisce tornare a dedicarsi ai suoi studi di Diritto amministrativo e all’attività legale. Antonio Andò è un avvocato amministrativista. Decide però di tornare in politica e si candida alle Elezioni regionali in Sicilia del 2008, nella lista del “Movimento per le Autonomie” di Raffaele Lombardo (di cui è stato commissario) nel collegio di Messina, ma ottiene solo 2.847 voti.), aveva fatto degli accordi con Lorenzo Ingemi, perché quest’ultimo aveva garantito il suo appoggio nella zona sud di Messina. Quando un conoscente venne a riferirmi di questo accordo, mi recai tutto infuriato nella segreteria del sindaco Andò di Messina, perché questa persona non aveva alcun titolo per parlare a nome della zona sud di Messina. A ripensarci penso di non essere mai stato così incauto come quella volta: mi presentai nel suo ufficio come se fossi stato chiamato con urgenza dal sindaco in persona, mentre non ero stato inviato da nessuno! In ogni caso fui ben accolto dai collaboratori del sindaco e altre persone di sua fiducia, come se avessero già saputo che, presto o tardi, mi sarei presentato. Chiesi spiegazioni su ciò di cui ero a conoscenza e loro mi confermarono che avevo avuto informazioni corrette. Nel frattempo ci raggiunse Ingemi, che era stato invitato da loro. Lui si avvicinò per salutarmi, ma io mi rifiutai, anzi, lo presi a male parole e lo feci sentire un verme davanti a tutti. Poi gli intimai di andarsene perché non gradivo la sua presenza. Questo fu una grande delusione per il sindaco e i suoi collaboratori, Ingemi non si era rivelato quella persona che loro credevano, infatti stampa e magistratura lo aveva definito come uno dei padrini storici di Messina. Quelli della segreteria invitarono il soggetto ad allontanarsi e pensarono di chiamare Sandro De Tullio, personaggio di rilievo della malavita messinese degli anni passati, che abitava nello stesso palazzo in cui si trovava l’ufficio. Con poche parole De Tullio riuscì a calmare la mia agitazione, così potei accordarmi con il sindaco e i suoi fedelissimi garantendo il mio appoggio nel procacciare i voti. In cambio avrebbero dovuto mettersi a disposizione per aiutare le persone del mio quartiere per qualunque bisogno e usare le loro conoscenze in tribunale per risolvere alcune questioni che mi riguardavano, e così fu”.

LA CAMPAGNA ELETTORALE E IL PATTO CON IL BOSS
“Nella campagna elettorale in corso diedi il mio contributo nel mio quartiere per aiutare il sindaco a essere eletto senatore. Una volta eletto rispettò i patti, pagò per alcuni anni le feste che io e amici miei organizzavamo nel quartiere Cep. Il senatore Andò e il suo staff si erano messi a disposizione per aiutare le persone che mandavo nella sua segreteria per qualsiasi loro esigenza, come quella di un posto di lavoro. Per quel che mi riguarda, si risolse una questione dell’83, quando mi fu applicato dal tribunale l’obbligo di soggiornare per 2 anni in un paesino di Imperia, per mia fortuna il sindaco e il prete di quella città non mi avevano accettato e il mio avvocato aveva fatto e ottenuto richiesta al giudice competente per tramutare l’obbligo di soggiorno in sorveglianza speciale da scontare a Messina. Nell’87 quest’obbligo era ancora pendente perché non avevo potuto scontarlo a causa delle detenzioni, della latitanza e della sorveglianza vigilata, che perdurava dall’82. Il senatore Andò diede incarico a un suo collaboratore di risolvere la questione. Dopo qualche giorno venni invitato a recarmi nella sua segreteria, incontrai il suo segretario il quale mi rappresentò di aver avuto dei contatti, tramite una sua persona di fiducia, con il presidente della corte d’assise di Messina, che era informato sulla situazione che mi riguardava ed era di sua diretta competenza Per togliermi questo obbligo di sorvegliato speciale i chiese di mandargli una donna per fare sesso. non fu difficile trovare un donna disposta a farmi questo favore, la ragazza che mandai mi riferì che avessero fatto sesso a tre, le, lui e la sua segretaria. Lui rispettò i patti e mi tolse l’obbligo della sorveglianza speciale. Nel frattempo i rapporti con il senatore e i suoi collaboratori erano diventati molto buoni, tanto che il senatore un giorno si recò personalmente al tribunale per una mia richiesta: parlo con il giudice Rossi per un intervento che riguardava mio fratello Carmelo. Un giorno venni invitato direttamente nell’ufficio del senatore, che doveva parlarmi di persona, una volta lì, mi chiese se avessi possibilità di arrivare a un professore calabrese dell’università di Messina. Questo professore era membro della commissione di esami di laurea di un ragazzo di sua conoscenza che avrebbe dovuto laurearsi in medicina. Visto che senatore e professore erano di corrente politica diversa, era difficile per lui chiedere direttamente la raccomandazione, così si rivolse a me, confidando che avessi delle conoscenze anche in Calabria. Risposi che avrei tentato di avvicinare questo professore attraverso persone che conoscevo. Il mio primo pensiero fu quello di parlare con don Carlos Mazzone, un mio grande amico e proprietario della concessionaria Volkswagen a Messina, essendo calabrese e avendo un figlio medico in Calabria. Andai da lui e rappresentai che avessi bisogno del suo aiuto. Lui chiese di spiegargli il motivo della mia visita, poi mi disse che non c’erano problemi e che avrebbe parlato con suo figlio per risolvere la questione. Dopo qualche giorno ci incontrammo e lui mi garantì che fosse tutto a posto, che il professore fosse stato contattato e che si fosse messo a disposizione. Riferii questi avvenimenti al segretario del senatore che mi ringraziò vivamente. Successivamente venni a conoscenza che il ragazzo avesse superato gli esami e si fosse laureato in medicina. Questa per me fu una grande soddisfazione, avevo risolto un problema che un personaggio come il senatore Andò non era riuscito a risolvere. I rapporti politici li tenevo anche con altri, che durante le elezioni mi chiedevano dei favori. Venivo contattato direttamente dai loro collaboratori e invitato a parlare nelle segreterie di loro appartenenze; ero per loro la ciliegina sulla torta per procacciarsi un buon contributo elettorale nella zona sud di Messina. In cambio ricevevo soldi, regali lussuosi e la possibilità di chiedere piccoli o grandi favori. Ricordo anche che proposi al segretario del senatore Andò di inserire un ippodromo all’esterno del nuovo stadio di San Filippo. Questo segretario trovò la mia proposta abbastanza interessante e prese un appuntamento con il nuovo sindaco. Una volta nello studio del sindaco, gli rappresentammo la nostra idea di far inserire un ippodromo nel progetto del nascente stadio San Filippo. Anche il sindaco trovò interessante questa nostra proposta e diede tutta la sua disponibilità. Prese l’impegno di far preparare da un geometra una bozza di progetto per costruire l’ippodromo unitamente allo stadio. Qualche mese dopo, il progetto fu fato e il sindaco ci invitò nel suo studio per mostrarci il lavoro svolto; ci disse, però, che avrebbe dovuto organizzarsi per anticipare le pratiche burocratiche e creare un bando per poter realizzare questo progetto. Purtroppo non mi fu possibile seguire la realizzazione dell’ippodromo per questioni personali e, senza il mio supporto, il progettò naufragò. Ad oggi ancora si parla della realizzazione di un ippodromo, se non altro per limitare il fenomeno delle corse clandestine. Ricordo anche che in quel periodo ebbi contatti diretti con l’assessore ai lavori pubblici. In base agli accordi che prendemmo, quest’ultimo si impegnò per l’abbellimento del quartiere Cep, fece allestire delle aiuole per far giocare i bambini, sistemare i marciapiedi e mettere alberi in diversi punti, il tutto per un valore di circa centocinquanta milioni di lire (fondi di cui disponeva immediatamente). In cambio garantii il mio appoggio durante il periodo delle elezioni comunali: offrii dei voti in cambio di un pagamento in soldi. Lo stesso appoggio era garantito a quei politici che offrivano pagavano fior di milioni per ottenere il mio contributo: oltre agli eventuali favori, ogni politico pagava dai venti ai trenta milioni di euro”.

#Va detto per completezza d’informazione che per tutte le accuse del pentito Iano Ferrara, ma non solo, il senatore Ando’ non subì neanche un processo. Misteri peloritani.

Tratto da: stampalibera.it

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