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aula bunker c shobhaChe fine hanno fatto i boss dopo la sentenza che riconobbe l’esistenza di una organizzazione verticistica. Ripercorriamo quella stagione che vide per la prima volta alla sbarra l’aristocrazia delle cosche. Una battaglia non ancora finita
di Attilio Bolzoni
E tra i padrini della Norimberga di Palermo c’è chi sogna ancora di rifare la Cupola
Palermo. Sarà ancora vivo quello che si mangiava i chiodi per far finta di essere pazzo? Come si chiamava? Sinagra Vincenzo detto Tempesta, da non confonderlo con suo cugino – si chiamava come lui, Sinagra Vincenzo - che per tutti gli altri era pazzo per davvero perché si era pentito. E il vecchio Mario Labruzzo della Guadagna, è morto nel suo letto o è morto sparato? E che fine ha fatto Pietro Alfano “U’zappuni” per gli incisivi a forma di zappa? E Giovanni Di Giacomo “Il Lungo”? E Ludovico Bisconti di Belmonte Mezzagno? E Vincenzo Buffa? E Gioacchino Cillari? E Rocco Marsalone? Chissà dove sono finiti quelli del maxi processo di Palermo, la “crema” di Cosa nostra processata e condannata nel dibattimento che trent’anni fa – dal 10 febbraio 1986 al 16 dicembre del 1987 – segnò l’inizio della fine di una mafia padrona.
In quei mesi erano tutti lì, aggrappati alle sbarre e rinchiusi per la prima volta come animali in trenta gabbie disposte a semicerchio e affacciate su una gigantesca piazza che sembrava un Colosseo tecnologico, telecamere sospese nell’aria, microfoni, metaldetector, porte blindate, un camminamento sotterraneo - ad uno ad uno ci passavano loro, i 475 imputati - che dall’Ucciardone portava all’aula bunker.
Dove sono oggi i sopravvissuti alle indagini del giudice Falcone? E che cosa fanno? E quanti se ne sono andati per cause naturali o per qualche «conto» che avevano in sospeso, come quell’ Antonino Ciulla che a poche ore dalla fine di tutto si ritrovò con un colpo alla schiena e con la faccia imbrattata dalla ricotta dei cannoli comprati per festeggiare l’assoluzione?
Sfogliando l’album del maxi processo è come fare un salto nel passato. E a volte nel futuro. Qualcuno ha sempre in mente di rimettere su la Cupola.
Fra reperti di archeologia mafiosa e nostalgici che non si arrendono mai, il nostro viaggio dentro la Cosa nostra degli Anni ’80 non vi farà mancare qualche sorpresa.
Quelli che avevano una certa età già allora – dalla classe 1908 alla classe 1912 – ovviamente non ci sono più. Il più longevo, Procopio Di Maggio, i suoi 100 anni li ha celebrati un mese fa con i fuochi d’artificio a Cinisi, il paese di Peppino Impastato. Ma non c’erano già più neanche quando li avevano condannati – alla fine del 1987 – nemmeno Calogero Bagarella (ucciso in viale Lazio nel dicembre ‘69), Saro Riccobono (strangolato alla Favarella nell’82) e Filippo Marchese (vittima della lupara bianca in imprecisato giorno fra l’83 e l’84), la cui sorte fu rivelata in seguito da pentiti che confessarono le loro colpe in altri processi. Vivo e all’ergastolo per l’omicidio di un carabiniere è Masino Spadaro, un contrabbandiere che per quanto era ricco si autodefiniva l’«Agnelli di Palermo». Un paio di anni fa si è laureato in Filosofia nel carcere di Spoleto, la sua tesi: «La non violenza e i fondamenti della religione di Gandhi».Vivo e residente a Corleone è Carmelo Gariffo, nipote prediletto di Bernardo Provenzano. Vivo e libero è Pino Lipari, iscritto all’albo dei geometri ma in realtà diventato dopo il maxi una sorta di ministro dei Lavori Pubblici dei Corleonesi. Vivi e detenuti i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, al tempo sconosciuti ragazzini di Brancaccio e poi meglio conosciuti come “i Graviano delle stragi”. C’è chi ha scontato la sua pena come Giovanbattista Inchiappa e fa l’elettricista, c’è chi è stato assolto come Giuseppe Urso e ha aperto una vineria, c’è chi ha preferito «cantare» come Salvatore Cocuzza, c’è chi si è suicidato come Giuseppe Giacomo Gambino e chi trafficava in morfina base ed è sparito dall’altra parte del mondo come il malese Lam Sing Choy. Ci sono capi sottoterra come Luciano Liggio e Bernardo Brusca e capi ai loro ultimi giorni come Totò Riina e Bernardo Provenzano e Pippo Calò. Morto Buscetta negli Usa, ancora vivo da qualche parte in Italia Totuccio Contorno.
Ci sono famiglie scomparse dal panorama criminale e altre sempre presenti. Di Vernengo al maxi processo ce n’erano 5, di Tinnirello 8, di Fidanzati 5. Ma i più numerosi erano i Greco: 10. Una stirpe. Greco Giuseppe fu Nicola, Greco Ignazio fu Vincenzo, Greco Leonardo, Greco Nicolò, Greco Salvatore fu Giuseppe e Greco Giuseppe fu Salvatore, Greco Salvatore fu Pietro, Greco Salvatore fu Salvatore. E poi Michele Greco, il signorotto di campagna che i Corleonesi fecero «Papa» e che augurò la «pace eterna» al presidente della Corte Alfonso Giordano e al giudice Pietro Grasso mentre si ritiravano in camera di consiglio. Morto nel 2009, all’età di 84 anni, a Rebibbia. Morto nel 2011, all’età di 58 anni, anche suo figlio Giuseppe, uno dei pochi assolti del maxi che poi aveva cambiato nome (Castellani, quello della madre) e si era lanciato senza troppe fortune nel cinema. Produttore di una commedia all’italiana - “Crema, cioccolata e paprika” con Barbara Bouchet e Franco Franchi - e regista de «I Grimaldi», una saga familiare dove la mafia «buona» (quella di suo padre) si contrapponeva alla mafia «cattiva» della droga. Ma accanto ai personaggi più pittoreschi ci sono gli in- tramontabili. Come Benedetto Capizzi, condannato a 8 anni e tornato alla ribalta nel 2008 per avere riunito un po’ di «vecchi amici» per rifondare la Commissione di Cosa nostra. Arrestato in diretta dai carabinieri: potenza della microspie. O come Salvatore Profeta, 6 anni al maxi e scarcerato per la revisione del processo Borsellino, che nel dicembre scorso chiacchierava con i suoi di Villagrazia firmando il ritorno in cella: «Quando c’era Stefano Bontate, in famiglia eravamo 100-120, oggi solo 20-30...». Ci riprovano sempre.
Avverte il procuratore capo di Palermo Francesco Lo Voi: «Anche dopo tanto tempo abbiamo la certezza che tentano sempre di rigenerarsi e che le regole dell’associazione restano immutate, la mafia continua a fare la mafia». Gli scarcerati del maxi processo sono sempre sotto controllo. Il più illustre a piede libero al momento è uno che era stato assolto, Giuseppe Guttadauro. Primario di chirurgia al Civico e capo-mandamento di Brancaccio, è il boss che ha messo nei guai il governatore Totò Cuffaro. Il dottore Guttadauro fa il volontario in una onlus a Roma. Come libero è anche Alessandro Bronzini, conosciuto come “Il Vampiro” perché amava uscire solo di notte. Bronzini fa il pittore, dipingeva in cella anche i quadri che Liggio spacciava per suoi e uno schizzo del nottambulo è diventato la quarta di copertina dell’”Altra faccia dei pentiti”, libro di Rosalba Di Gregorio. Nel 1986 era una ragazzina che difendeva undici imputati, noi l’avevamo chiamata «l’avvocatessa del diavolo». Oggi è una bella signora che guarda al maxi sempre con la sua cultura libertaria e radicale: «Il processo ha una sua sacralità e sono ancora convinta che la formale parità delle parti allora non è stata rispettata». La Di Gregorio aveva fra i suoi clienti anche Vittorio Mangano, quello passato alla storia come lo “stalliere” di Berlusconi. Deceduto il 23 luglio del 2000.
Una mattina di questo febbraio 2016 siamo tornati all’aula bunker. Deserta. Dall’altra parte, in via Albanese numero 3 – un indirizzo che a Palermo conoscono tutti - c’è il portone dell’Ucciardone. Non c’è più un solo mafioso rinchiuso lì dentro, tutti deportati al 41 bis lontano dalla Sicilia dalla notte che uccisero Borsellino. Su un bastione del carcere sventolano due bandiere, una dell’Europa e un’altra dell’Italia. A pochi metri, sempre in via Albanese, al civico 46, sventolano altre due bandiere dell’Europa e dell’Italia. È l’ingresso dell’Ucciardhome, hotel a quattro stelle, legni, marmi, archi di pietra, design minimalista. Un’altra Palermo.

Tratto da: La Repubblica del 29 febbraio 2016

Foto © Shobha

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