La lettera si apre così: “Egr. tesoriere del Partito Democratico, onorevole Bonifazi, non ho risposto tempestivamente alla sua prima lettera, nella quale mi chiedeva di versare 83.250 euro al Pd in ragione della mia elezione al Senato nel 2013, perché ho considerato la modalità attraverso la quale ha scelto di farmi giungere tale comunicazione, ossia i giornali, un colorito quanto basso espediente da campagna elettorale”.

Il presidente del Senato mette in fila una serie di punti in risposta alle polemiche di questi giorni, mosse dall’ala renziana più oltranzista. Primo, Grasso dice di non aver “mai ricevuto da voi alcuna comunicazione in merito alla quota economica mensile che avrei dovuto versare al Pd in ragione della mia elezione, né le modalità di pagamento. Eppure dal marzo del 2013 al giorno delle mie dimissioni dal gruppo del Pd in Senato sono trascorse 56 mensilità. Abbastanza occasioni per farlo, non crede?”. Secondo: “Dal marzo 2013 avete approvato quattro bilanci del Pd, tutti a sua firma. Neanche in quelle occasioni ha ritenuto opportuno comunicarmi alcunché”. Terzo: “Non sembra opportuno che il presidente del Senato sostenga con soldi pubblici l’attività di un partito, così come per prassi centenaria non è chiamato a dare col voto alcun contributo politico. Ecco perché ero convinto che non aver ricevuto richieste di contributi dipendesse da una visione condivisa di questo modello. Sarò felice se vorrà spiegarmi la ragione per cui ha cambiato opinione”. Quarto: “Visto che il suo disappunto per la mia presunta morosità si è trasformato in sprezzanti dichiarazioni pubbliche, vorrei capire cosa ne pensa dei circa 250mila euro che il gruppo del Pd in Senato ha percepito dal marzo del 2013 al 26 ottobre del 2017 in ragione della mia iscrizione al gruppo medesimo”.

Bonifazi tra l’altro, nella sua lettera pubblica a Grasso, aveva scritto: “Capisco che trattasi di somma ingente, poco più di ottantamila euro, ma non così esosa da non poter essere onorata. Peraltro ho letto proprio in questi giorni che non hai neanche il problema del tetto dei 240mila euro. Mi sembra giusto che tu dia il buon esempio per i lavoratori in difficoltà. Se lo fai, il tuo gesto spingerebbe tutti gli altri deputati e senatori transitati dal Pd in Mdp a onorare i propri impegni”.

E da qui riparte la replica di Grasso. Quinto punto: “La mia dichiarazione dei redditi da lavoro dipendente (non da fumose consulenze) è pubblica da cinque anni, ma solo oggi diventa tema di attacco da parte sua”. Sesto: “La pensione da magistrato, di gran lunga inferiore al tetto dei 240mila euro, dalla quale è stato prelevato per tre anni il dovuto contributo di solidarietà, previsto dalla legge, è frutto di 43 anni di lavoro svolto con impegno, senso delle istituzioni e spirito di sacrificio, condiviso con la mia famiglia. Non certo qualcosa di cui vergognarmi“. Ultimo punto: “Come lei sicuramente saprà, nel mio secondo giorno da presidente del Senato ho scelto di dare un segnale di sobrietà tagliando, fatte salve le indennità irrinunciabili, varie voci tra cui quelle previste come ‘rimborso spese per l’esercizio del mandato‘, esattamente quella dalla quale i parlamentari prelevano la quota che versano nelle casse del Pd. Oltre ai tagli alle mie indennità ho dimezzato il costo complessivo lordo del gabinetto del presidente e del fondo consulenza, con un risparmio annuo di circa 750mila euro. Al termine del mio mandato avrò dunque fatto risparmiare alle casse dello Stato più di quattro milioni di euro“.

Per questi motivi secondo Grasso nessuna delle ragioni che Bonifazi ha scritto in quella che il presidente del Senato definisce “la sua infamante lettera“. Già che c’è il leader di Liberi e Uguali non rinuncia nemmeno a un ultimo affondo: “Lasci fuori da questa orrenda strumentalizzazione i dipendenti del Pd. Sono in cassa integrazione in virtù di una gestione economica e finanziaria disastrosa e di un indebitamento milionario causato, in primis, dalla fallimentare campagna referendaria: a loro, così come ai giornalisti dell’Unità, di Europa e alle loro famiglie, va tutta la mia solidarietà”.

A Grasso risponde Michele Anzaldi, deputato del Pd tra i più energici, che parla di “tripla figuraccia”. “Sul suo debito con il Pd – spiega Anzaldi – il presidente del Senato trasforma quella che sembrava solo una caduta di stile nella cosciente decisione di infrangere il patto che a suo tempo ha firmato con il Pd. Tutti i parlamentari Pd, al momento della sottoscrizione della candidatura, si impegnano a contribuire economicamente al partito. Anche Grasso si è impegnato. Ora dice che non ha ricevuto le lettere di sollecito? Sembra l’ atteggiamento furbetto di chi non vuole saldare un debito dovuto. Chieda al suo collega di partito Bersani, che prima di lasciare il Pd ha chiuso il suo debito. Lo stesso discorso vale per la sua scelta di non rispettare il tetto da 240mila euro, sotto il quale si trovano tutte le cariche istituzionali a partire dal Quirinale. Grasso dice che la pensione da magistrato se l’è guadagnata. E chi lo mette in discussione? Anche il presidente Mattarella percepisce la sua pensione, ma ha scelto di evitare che il cumulo con lo stipendio da presidente della Repubblica sfori il tetto da 240 mila che nella pubblica amministrazione tutti sono chiamati a rispettare. Perché Grasso non ha fatto lo stesso? E’ infamante chiedergliene conto?”.

ilfattoquotidiano.it