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mazen abu c imagoeconomicaRottura totale dopo la conquista armata della Striscia da parte del movimento islamico
di Umberto De Giovannangeli
Mentre a Gaza si continua a morire, Hamas "sfiducia" Abu Mazen. La rottura è esplicita, totale, come mai era avvenuto negli ultimi 11 anni, dopo la conquista armata della Striscia da parte del movimento islamico. A sfiduciare Abu Mazen sono i parlamentari di Hamas che, per la prima volta, hanno affermato che l'attuale presidenza dell'Anp è "illegale" e che "non rappresenta più il popolo palestinese". Ma l'accusa più grave è quella lanciata da una delle figure più rappresentative della dirigenza di Hamas nei Territori: Mahmoud al Zahar, già ministro degli Esteri nel governo di Hamas, più volte bersaglio di operazioni mirate da parte d'Israele.
"L'Anp - dice in esclusiva ad HuffPost al Zahar - si è chiamata fuori dall'eroica resistenza popolare condotta a Gaza contro il nemico sionista, ma ora pensa di poter riconquistare il terreno perduto attraverso il ricatto economico...". Al-Zahar fa riferimento a una mossa senza precedenti che Abu Mazen starebbe per intraprendere: bloccare il trasferimento dei fondi annuali dell'Anp a Gaza: 96 milioni di dollari. Il leader di Hamas non smentisce questa voce che circola insistentemente nella Striscia, e avverte: "Una decisione del genere sarebbe una dichiarazione di guerra, e porrebbe Abu Mazen a fianco degli strangolatori di Gaza e della sua gente...". A fianco di Israele che da 11 anni assedia Gaza e del presidente Usa che, per far pressione sulla debole leadership palestinese, ha deciso di far venir meno il contributo degli Stati Uniti (200 milioni di dollari) all'Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unrwa). "Non siamo certo noi ad aver paura di nuove elezioni. La prima e al momento unica volta in cui il popolo palestinese si è potuto esprimere in libere elezioni, a vincere sono state le nostre liste", ci dice Fawzi Barhoum, portavoce di Hamas, facendo riferimento alle elezioni del gennaio 2006, stravinte da Hamas.
Che per la successione ad Abu Mazen, ha due candidati che possono contare anche su importanti supporti esterni: l'ex capo dell'Ufficio politico, Khaled Meshaal, sostenuto dagli Emirati Arabi Uniti, e l'ex primo ministro Ismail Haniyeh, che negli ultimi tempi ha rafforzato i legami con l'Egitto del presidente al-Sisi. La sfiducia è stata preceduta da un durissimo commento del movimento islamico al discorso pronunciato dal presidente palestinese alle Nazioni Unite. Una bocciatura totale, una condanna senza appello. Hamas ha definito quel discorso, "un ridondante riverbero delle sue politiche improduttive riguardanti la causa palestinese e la lotta contro l'occupazione". In un comunicato, ripreso e tradotto da InfoPal, il movimento islamico ha sostenuto che e il discorso di Abbas "è un annuncio esplicito del fallimento delle sue politiche e una confessione diretta che il percorso di insediamento non porterà mai a soluzioni o a qualsiasi altra realizzazione per il popolo palestinese". E ancora: nel suo discorso, denuncia Hamas, Abbas "ha trascurato la Grande Marcia del Ritorno e i grandi sacrifici che il popolo palestinese fa per resistere all'occupazione. Ha anche voltato le spalle alla Striscia di Gaza e alla sua gente nelle sue parole davanti all'Assemblea Generale".
E' un crescendo senza precedenti di accuse durissime. "Abbas ha usato la tribuna delle Nazioni Unite per annunciare l'isolamento della Striscia di Gaza e il lancio di nuove misure punitive. Tali minacce mettono in pericolo la riconciliazione palestinese. Abbas avrebbe dovuto piuttosto annunciare la decisione per revocare le sanzioni imposte alla Striscia di Gaza. Noi riteniamo che Abbas sia responsabile delle ripercussioni delle sue misure contro l'enclave assediata". In questo modo, è il minaccioso avvertimento lanciato da Hamas, "Abbas approfondisce la spaccatura palestinese, spiana la strada all'occupazione israeliana per perpetrare altri crimini e uccisioni e facilita l'attuazione dell'Accordo del Secolo (quello evocato dal presidente Usa Donald Trump, ndr)". Quel discorso, sentenzia Hamas, è "una coltellata alle spalle dei Palestinesi". Una resa dei conti, quella in atto in campo palestinese, che accompagna il riesplodere della violenza ai confini tra la Striscia di Gaza e Israele.
Sette palestinesi sono stati uccisi e 506 sono stati feriti, ieri, nelle manifestazioni della "Marcia del Ritorno". Il ministero della Sanità ha reso noto che 7 giovani sono stati uccisi dai soldati israeliani di stanza al confine con la Striscia: Mohammed Nayef al-Hum (14 anni), di al-Bureij, nel centro della Striscia di Gaza, colpito al petto; Iyad Khalil Ahmed Shaer (18 anni); della Città di Gaza, colpito al petto da cecchini israeliani; Mohammed Bassam (24 anni), Mohammed Ali Mohammed Inshasi (18 anni) di Khan Yunis, Mohammed al-Awawda, 26. Il portavoce del ministero della Sanità palestinese, Ashraf al-Qidra, ha confermato che tra i 506 cittadini feriti, 90 sono stati colpiti da proiettili letali. Tre casi versano in gravi condizioni. Tra i feriti ci sono 35 bambini e ragazzi, 4 donne, 4 paramedici e due giornalisti. Yousef Abu Zarif, di 11 anni, di Khan Yunis, nel sud della Striscia, si trova in gravi condizioni. L'esercito israeliano, secondo quanto riportato da Haaretz, afferma di aver risposto al lancio di granate e altri oggetti esplosivi contro le postazioni di guardia alla frontiera, fatto da oltre 20.000 "violenti".
Dal 30 marzo, sono poco meno di 200 i palestinesi uccisi dalle forze armate israeliane nelle "proteste del Ritorno" annientare Gaza. Non è il nome in codice della guerra prossima ventura che Israele scatenerà nella Striscia. E' qualcosa d'altro e di più pervasivo: è usare, da parte del governo di Gerusalemme, due milioni di palestinesi come arma di ricatto nei confronti dell'Egitto di al-Sisi e, soprattutto, delle petromonarchie del Golfo. Israele sa che Gaza resta una polveriera pronta a riesplodere, oltre lo scenario di una guerra a bassa intensità. E sa altrettanto bene che le due opzioni di sempre sono, per ragioni diverse, impraticabili: rioccupare la Striscia e/o mantenere lo statu quo. Ecco allora materializzarsi, negli ambienti governativi dello Stato ebraico, l'idea, aggiornata, di qualcosa che dai tempi degli accordi di Camp David (settembre 1978) tra Menachem Begin e Anwar al Sadat si era affacciata, da parte dell'allora premier (Likud) israeliano: costringere il vicino arabo a farsi carico della Striscia, annettendola al proprio territorio nazionale o, se ciò era troppo, facendone una sorta di protettorato arabo, militarmente garantito dall'Egitto e finanziato dagli Emirati Arabi Uniti e dal Qatar. D'allora sono trascorsi quarant'anni. E Gaza resta un problema irrisolto. E una tragedia umanitaria immanente. Il sangue versato a Gaza nel "Land Day", e successivamente, nell'"Intifada degli aquiloni", racconta una storia che non nasce ieri ma che si dipana nel corso di decenni e che ha nella Striscia uno dei suoi più tragici luoghi di attuazione.
E' la storia di tre guerre, di bombardamenti, razzi, invocazione al diritto di difesa (Israele) e a quello della resistenza armata contro l'"entità sionista" (Hamas). E' la storia di punizioni collettive, di undici anni di assedio. Ma è anche la storia di un movimento islamico che, fallita l'esperienza di governo, cerca nuova legittimazione nell'indirizzare contro l'occupante con la Stella di David, la rabbia e la sofferenza di una popolazione ridotta allo stremo in quella prigione di nome Gaza. Una prigione che torna a fare notizia quando si fa la conta dei morti, quando torna ad essere un teatro di guerra. Allora i riflettori si riaccendono, i media ne tornano a parlare. Dimenticando che la vera, grande tragedia di Gaza e della sua gente, è la normalità. Ed è nella "normalità" che Gaza muore. L'ultimo, documentato grido d'allarme, è stato lanciato da Oxfam. L'assedio sta privando una popolazione di 1,900milioni di abitanti, il 56% al di sotto dei 18 anni, del bene più vitale: l'acqua. A oltre quattro anni dal sanguinoso conflitto che nel 2014 distrusse buona parte del sistema idrico e fognario di Gaza, il sistema straordinario disegnato dalla comunità internazionale per la ricostruzione post-bellica (il cosiddetto Gaza Reconstruction Mechanism-Grm) non riesce ancora a rispondere ai bisogni dei quasi 2 milioni di abitanti della Striscia "intrappolati" in una delle zone più densamente popolate del mondo.
Una situazione drammatica, rimarca il report di Oxfam, aggravata degli effetti del decennale blocco di Israele sulla Striscia, di cui le prime vittime sono oltre 1,9 milioni di persone che devono sopravvivere con uno scarsissimo accesso all'acqua e una situazione igienico-sanitaria in continuo peggioramento. Basti pensare che il 95% della popolazione - anche solo per bere e cucinare - dipende dall'acqua marina desalinizzata fornita dalle autocisterne private, semplicemente perché l'acqua fornita dalla rete idrica municipale (che presenta oltre 40% di perdite) non è potabile o perché oltre 40mila abitanti non sono allacciati alla rete. A questo si aggiunge un sistema fognario del tutto inadeguato con oltre un terzo delle famiglie che non è connesso al sistema delle acque reflue. Una situazione di carenza idrica di cui fanno le spese soprattutto donne e bambini, che in molti casi sono costretti a lavarsi, bere e cucinare con acqua contaminata e si trovano esposti così al rischio di diarrea, vomito e disidratazione.
Gli effetti del blocco israeliano nella vita di tutti i giorni: commercio praticamente inesistente, famiglie divise e persone che non possono muoversi per curarsi, studiare o lavorare. Le Nazioni Unite annunciano che entro il 2020, tra nemmeno due anni, sarà praticamente impossibile vivere a Gaza per la mancanza di energia elettrica, il più alto tasso di disoccupazione al mondo e l'impossibilità per la popolazione di accedere anche a beni essenziali come cibo e, per l'appunto, acqua pulita. Siamo all'annientamento di una popolazione, mentre ai vertici palestinesi si consuma una lotta per il potere senza esclusione di colpi.

huffingtonpost.it

Foto © Imagoeconomica

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