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Lo scrive il New York Times in un articolo citando fonti dell’ex amministrazione Obama: «Prove che dimostravano» la responsabilità di «elementi della sicurezza egiziana»
di Davide Casati
Sin dalle prime settimane seguenti alla morte di Giulio Regeni, l’amministrazione americana era entrata in possesso di «prove esplosive» sulle responsabilità degli apparati dello Stato egiziano nel rapimento, nella tortura e nell’uccisione del giovane italiano, e ha comunicato al governo italiano, con certezza assoluta, che i vertici del Cairo erano a conoscenza delle circostanze relative alla morte del ricercatore. A scriverlo è il New York Times in un lungo articolo dedicato proprio al caso del giovane italiano massacrato in Egitto nel 2016. La rivelazione arriva il giorno successivo alla decisione del governo italiano di inviare di nuovo un ambasciatore al Cairo. La scelta ha causato una dura reazione da parte della famiglia Regeni, che l’ha definita una mossa che «calpesta la nostra dignità».
Il governo italiano, dopo la pubblicazione dell’articolo del New York Times, ha spiegato, tramite «fonti» citate dalle agenzie di stampa, di non aver mai ricevuto dagli Usa «elementi di fatto, né tantomeno “prove esplosive”», come peraltro correttamente indicato dall’articolo. «La collaborazione con la Procura di Roma — continuano le stesse fonti — in tutti questi mesi è stata piena e completa»: anche questo un dettaglio presente nell’inchiesta del Times.

Che cosa scrive esattamente il «New York Times»
Nella lunga e dettagliatissima inchiesta, firmata dal corrispondente dal Cairo Declan Walsh e pubblicata il 15 agosto, il New York Times ricostruisce con precisione — risalendo anche a messaggi privati — la vita di Giulio Regeni, il suo lavoro, i contatti in Egitto, le sue passioni. Fornisce anche un quadro delle tre agenzie di sicurezza e di intelligence egiziane — la Sicurezza Nazionale, l’Intelligence militare, e la General Intelligence Service, «l’equivalente egiziano della Cia» — che, se pur tutte fedeli al presidente Al Sisi, vengono descritte come «in competizione tra loro». Il paragrafo che ha attirato maggiori attenzioni da parte del governo italiano è quello relativo alle informazioni raccolte dagli Stati Uniti e passate al governo italiano. «Nelle settimane successive alla morte di Regeni», si legge, «gli Stati Uniti vennero in possesso dall’Egitto di prove di intelligence esplosive: elementi che dimostravano come Regeni fosse stato rapito, torturato e ucciso da elementi della sicurezza egiziana». «“Avevamo prove incontrovertibili di responsabilità ufficiali egiziane”, spiega un membro dell’amministrazione Obama, uno dei tre ex esponenti governativi che hanno confermato l’esistenza di quelle prove. “Non c’erano dubbi”», scrive il Times. Che continua: «Su raccomandazione del Dipartimento di Stato e della Casa Bianca, gli Stati Uniti consegnarono questa conclusione al governo Renzi. Ma per evitare di “bruciare” la propria fonte, gli americani non condivisero i materiali di intelligence, né dissero quale delle agenzie di sicurezza e intelligence ritenevano fosse dietro la morte di Regeni. “Non c’era chiarezza su chi avesse dato l’ordine di rapirlo e, probabilmente, di ucciderlo”, spiega un altro ex rappresentante del governo. Quel che gli americani sapevano per certo, e che dissero agli italiani, era che la leadership egiziana era pienamente a conoscenza delle circostanze relative alla morte di Regeni. “Non avevamo dubbi sul fatto che questa era una cosa nota fino ai livelli più alti”, spiega l’altro ex rappresentante del governo. “Non so se ne fossero responsabili. Ma sapevano. Sapevano”».

I nodi e i dubbi aperti
Il paragrafo del Times tocca alcuni punti molto importanti:
— l’inchiesta spiega che le «prove esplosive» non furono passate dall’amministrazione americana al governo italiano, ma rivela che quelle prove esistono. Dal canto suo, Palazzo Chigi non smentisce, ma conferma quanto effettivamente scritto dal quotidiano: gli «elementi di fatto» non furono inviati da Washington a Roma;
— nella nota delle «fonti» del governo italiano si sottolinea come «la collaborazione» investigativa tra Usa e Italia sia completa: un modo per smorzare ogni polemica;
— i rappresentanti governativi americani citati dall’articolo dicono che non fosse chiaro «chi» avesse dato l’ordine di catturare e «presumibilmente» di uccidere Regeni: una frase che indica che le prove in possesso degli Stati Uniti non siano in grado di chiarire né la responsabilità ultima, personale, dietro la decisione di rapire Regeni, né di indicare in modo incontrovertibile quale agenzia di sicurezza e intelligence lo abbia torturato e ucciso, né se la sua morte venne «decisa» o fu il risultato delle violentissime torture subite;
— anche se non lo nomina esplicitamente, sembra che la fonte citata dal New York Times alluda ad Al Sisi e a membri del suo governo quando spiega che a sapere che cosa fosse successo a Regeni fosse «the very top», il vertice supremo dello Stato (usando il pronome «they», «loro»).

La rabbia del dipartimento di Stato Usa
L’articolo del New York Times rivela che il caso Regeni — e le prove raccolte dagli Stati Uniti — furono alla base di una burrascosa conversazione avuta dall’allora segretario di Stato americano, John Kerry, con il ministro degli Esteri egiziano Sameh Shoukry. Kerry — che pure «aveva la fama di trattare l’Egitto con i guanti bianchi» — approcciò duramente Shoukry, anche se non riuscì a determinare se questi stesse erigendo un muro di gomma o «semplicemente non fosse a conoscenza della verità». L’atteggiamento dell’amministrazione americana è cambiato radicalmente con l’arrivo alla Casa Bianca di Donald Trump, che ha già provveduto a ricevere Al Sisi.
I depistaggi e il ruolo di Massari
L’inchiesta del New York Times rivela anche che i magistrati italiani inviati al Cairo vennero «depistati ad ogni pie’ sospinto», e spiega come l’allora ambasciatore italiano Massari — angosciato dopo aver visto con i propri occhi il cadavere martoriato di Giulio: «la bocca spalancata, i capelli zuppi di sangue, l’orecchio destro mozzato, le ossa di spalle, piedi e polsi sbriciolate, un dente mancante e molti altri spezzati, le bruciature di sigaretta sulla pelle, le ferite profonde alla schiena», frutto di una tortura durata quattro giorni — iniziò a temere per la sicurezza dell’ambasciata. «Presto smise di usare le email e il telefono per le comunicazioni delicate», si legge, «ricorrendo ad una soluzione vecchio stile, per comunicare con Roma: una macchina che scriveva messaggi criptati su carta». Anche perché «si temeva che gli egiziani impiegati presso la sede diplomatica italiana passassero informazioni alle agenzie di sicurezza egiziane, e che in un appartamento posto accanto all’ambasciata, le cui luci erano costantemente spente», fosse stato piazzato quanto necessario per spiare le mosse dei rappresentanti italiani.
Il ruolo dell’Eni e le tensioni nel governo italiano
L’articolo del New York Times parla poi apertamente di fratture all’interno delle autorità italiane, alle prese anche con «altre priorità». «Le agenzie di intelligence italiane avevano bisogno dell’aiuto dei colleghi egiziani per affrontare la minaccia di Isis, gestire il conflitto in Libia e monitorare l’ondata di migranti nel Mediterraneo». Non solo: Eni — che poco prima dell’arrivo di Regeni in Egitto aveva annunciato la scoperta di un enorme giacimento di gas, Zohr, proprio al largo delle coste egiziane — entrò in campo sul caso del ricercatore italiano. Claudio Descalzi, ad di Eni, «parlò almeno tre volte con il presidente egiziano al Sisi» del caso Regeni. «Quella che veniva percepita come una collaborazione tra Eni e servizi di intelligence italiani divenne una fonte di tensioni all’interno del governo italiano», scrive il Times. «Membri del ministero degli Esteri e dei servizi di intelligence divennero sospettosi gli uni degli altri, a volte evitando di scambiarsi informazioni«. «Eravamo in guerra, e non solo con gli egiziani», spiega una delle fonti al quotidiano.

Le tesi sulla morte
L’articolo non offre risposte alla domanda che gli dà il titolo («Perché un ricercatore italiano è stato torturato e ucciso in Egitto?»). Registra però quattro teorie (insieme a molti dubbi). La prima: a causare la morte di Regeni ci sarebbe stata l’azione di apparati deviati dei Servizi egiziani, che avrebbero agito senza l’approvazione di Sisi. Secondo questa teoria, il presidente egiziano avrebbe saputo della morte di Regeni, ma non sarebbe responsabile di aver dato il suo via libera. Se così fosse, però — si chiede l’articolo — perché far ritrovare il corpo di Regeni, e non farlo svanire nel nulla? La seconda teoria, ventilata da Hossam Zaki, ex viceministro degli Esteri egiziano, è l’azione di «elementi esterni» nel tentativo di sabotare le relazioni tra Egitto e Italia: «Gli egiziani non trattano male gli stranieri, punto», ha detto al Times. La terza teoria è che Regeni sia finito nel fuoco incrociato delle diverse agenzie di sicurezza e intelligence egiziane. La quarta teoria, «la più allarmante», è che la morte di Regeni fosse «un messaggio chiaro: il segnale che, sotto al Sisi, anche un occidentale poteva essere sottoposto» a torture brutali. «Alti rappresentanti del governo egiziano potrebbero aver ordinato la morte di Giulio» per «mandare un messaggio ai governi stranieri: piantatela di giocare con la sicurezza egiziana». Il che spiegherebbe un dettaglio rivelato al Times da una fonte a Roma: «Quando fu recuperato, il cadavere di Giulio era stato puntellato a un muro. “Volevano che venisse ritrovato?”».

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