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protect-the-people19 aprile 2015
Settecento è un numero incredibile. Un numero senza precedenti. Una strage come mai ne abbiamo viste prima. Ma è un numero e ormai siamo abituati ad abituarci ai numeri, anche ai grandi numeri. L’esercizio è sempre uguale a se stesso: lo sbigottimento, il dolore e poi l’oblio. Sempre nella stesso ordine per poi cominciare di nuovo, nello stesso modo.
Settecento è un numero incredibile, ma lo erano anche 368 e 250 e 300 e poi 400 solo pochi giorni fa. Lo sconcerto sale ogni volta che la soglia si alza, e l’emozione diventa banale di fronte ai numeri a sole due cifre, come successo poco tempo fa quando 40 morti annegati erano meno importanti della problema di dove mettere i vivi. È lo stesso meccanismo che fa gridare all’emergenza quando ne arrivano alcune migliaia. Le istituzioni del nostro paese sono sempre sorprese dagli arrivi anche se lo avevano previsto e annunciato loro stesse: “600 mila pronti a partire”, “un milione pronti a partire”. È un meccanismo che si ripete e che si nutre di numeri.
Dovremmo cambiarlo quel meccanismo cominciando a chiamare le persone con il loro nome. Settecento nomi sono lunghi da pronunciare uno dietro l’altro, e il tempo che ci vuole rende l’idea, aiuta a capire di cosa si tratta realmente. Rende evidente che si tratta di persone, ognuna con la sua storia e anche la violenza da cui ognuno fugge è in realtà fatto specifico e personale.
L’Europa non vuole capirlo e di nomi non vuole sentire parlare e si ostina a proteggere i propri confini invece di proteggere le persone. E allora non ci resta che farglieli sentire e ripeterli ancora e aggiungere i nuovi, quando arrivano.
I nomi dei morti, ma forse soprattutto i nomi dei vivi, i superstiti, sopravvissuti alla morte più di una volta e condannati all’oblio una volta raggiunta la meta, la “salvezza”.
La strage è infinita, lo stillicidio di naufragi si ripete con frequenza costante. Oggi la notizia di settecento morti arriva senza neanche una possibilità di verifica e produce sconcerto e rabbia. L’effetto è importante, ma cosa succederà se quel numero non venisse confermato dalle testimonianze dirette dei superstiti? Cosa succederà se quel numero venisse ridimensionato magari a “poche” centinaia?
L’emozione e la rabbia del momento devono diventare determinazione politica. Le stragi nel Mediterraneo non sono inevitabili. La soluzione si chiama corridoio umanitario, percorsi di accesso protetto all’Europa, un meccanismo che potrebbe essere messo in moto subito per i richiedenti asilo per chi scappa da guerra e persecuzione.
È quello che mi diceva solo ieri Ahmet, siriano e palestinese allo stesso tempo, in fuga dal campo di Yarmouk, periferia sud di Damasco: “perché dovrei rischiare la vita in mare se ho la possibilità di chiedere asilo in modo legale?”
Lui ha attraversato il confine tra Marocco e Spagna ed è entrato nell’enclave di Melilla con il passaporto in mano insieme alla sua famiglia. Dall’inizio dell’anni altri tremila come lui hanno fatto lo stesso percorso protetto attraverso il solo ufficio che consente di chiedere asilo sui confini d’Europa aperto dalla Spagna sul confine di Melilla. Un confine chiuso da una rete tagliente lunga tredici metri e alta sei, che ogni tanto cercano di scavalcare a centinaia. Anche qui altri numeri: 300, 400, 700, numeri che corrispondono a persone, numeri cui nessuno deve mai abituarsi.

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