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11-sett-torri-gemelle-big0Il racconto del medico forense nel team che identificava le vittime. “Lavoravamo come macchine, poi un dettaglio mi ricordò mio marito...”
di Paolo Mastrolilli - 11 settembre 2014

Inviato a New York. «E poi, in mezzo a quel caos, la paura, l’incertezza, ci dissero che i resti delle vittime da identificare non arrivavano ancora, perché a Ground Zero stavano facendo le analisi per verificare se i terroristi avevano usato armi biologiche». Nessuno ha vissuto l’11 settembre 2001 come Judy Melinek. Quando Al Qaeda colpì le Torri Gemelle, lei era entrata da due mesi nel New York City Office of Chief Medical Examiner. Avendo scelto di fare il medico legale, si aspettava autopsie raccapriccianti, «ma nulla avrebbe potuto prepararmi all’orrore di quel giorno, che ci ha cambiati tutti per sempre». Ora quella terribile memoria è scritta nel suo libro «Working Stiff», appena uscito negli Usa. 

Che cosa ricorda di quella mattina?
«Stavo arrivando in ufficio, quando notai un aereo che volava molto basso. Ci feci caso, ma senza prestare troppa attenzione. Quando arrivai alla mia scrivania vidi le tv accese sul disastro, e capii subito che cosa era successo». 

Eravate l’epicentro di quello che avreste battezzato poi come il DM01, Disaster Manhattan 2001. Cosa successe in quei minuti?
«Prima di tutto paura, per noi stessi e per le nostre famiglie, come ogni abitante di New York. Poi una riunione, in cui ci informarono di cosa avremmo dovuto fare». 

Ci può spiegare cos’era la «regola del pollice»?
«Dovevamo identificare i resti delle vittime, ma sarebbe stato un lavoro come nessun altro prima. I morti potevano essere anche ventimila, e non dovevamo aspettarci cadaveri interi. L’istruzione era quella di schedare e analizzare qualunque potenziale resto umano grande come un pollice. Tutto poteva conservare un’informazione utile a identificare una vittima». 

Come procedevate?
«I soccorritori raccoglievano a Ground Zero i resti da quella che avevamo chiamato la “pile”, e li portavano da noi. Ogni medico apriva le body bag e prendeva i frammenti, a volte solo pezzetti di ossa. Li catalogava, e cercava di estrarre il Dna, le impronte digitali se erano rimaste le dita, o qualunque altro indizio». 

Il suo primo frammento fu il numero DM01000041. Sa chi era?
«Era rimasto solo un torso con la testa schiacciata. So chi era, ma nel libro ho cambiato nomi e identificativi, per proteggere le famiglie e me stessa». 

Descrive un episodio, però, in cui crollò.
«Prima o poi, è successo a tutti noi nel Medical Examiner. Dovevamo funzionare come macchine, per essere efficienti, mettendo da parte ogni emozione. Là fuori c’erano famiglie che dipendevano da noi per conoscere la sorte dei loro cari, nulla poteva fermarci. Non guardavamo neppure i manifesti degli scomparsi, per non lasciarci influenzare. Poi però ti capitava un dettaglio che ti faceva crollare. Nel mio caso fu un anello indossato da un pompiere. Dal poco che restava di lui, perché aveva ancora il giubbotto e da dietro sembrava normale, ma davanti aveva il petto dilaniato. Era un tradizionale anello matrimoniale irlandese, un Claddagh, come quello che portava mio marito T. J. Pensai a lui, fu una reazione istintiva, scoppiai a piangere a scappai». 

Quanti resti ha esaminato?
«Io 598, su un totale di 19.956. La media di tutti i colleghi». 

Ha incontrato i famigliari delle vittime che ha identificato?
«Nei normali casi forensici, dove bisogna determinare la causa del decesso, contattiamo i famigliari per avere informazioni che possono aiutare. Nel caso dell’11 settembre, però, non era necessario. Le cause del decesso erano note e il nostro compito era solo identificare le vittime. I famigliari erano assistiti da psicologi, e i campioni che portavano arrivavano a noi per via indiretta, per non compromettere la nostra efficienza. Ho incontrato i famigliari qualche tempo dopo, quando l’emozione era diminuita, ed è stata un’esperienza difficile ma utile. Io ho spiegato la complessità scientifica del nostro lavoro, e perché è stato così lungo; loro mi hanno fatto capire quanto fosse importante avere almeno un frammento, una certezza sulla sorte dei loro cari. Nulla potrà mai riparare il danno provocato dall’11 settembre, ma questo contatto umano ci ha aiutato ad affrontarlo». 

Lei fece anche l’autopsia di Kathy Nguyen, la prima vittima dell’antrace. A cosa pensò in quei momenti?
«Alla nostra fragilità. Non sapevamo cosa stesse accadendo, e anche una persona così, senza legami politici, poteva essere colpita. Non era più contagiosa, perché gli antibiotici che le avevano dato avevano eliminato l’antrace, ma era morta per i danni devastanti subiti dal suo corpo». 

Eppure la sera lei tornava a casa, e giocava con suo figlio Danny.
«Era indispensabile. Separare, per sopravvivere». 

Ora lei ha lasciato New York e continua a fare il medico legale in California: è scappata dal ricordo dell’11 settembre?
«Ho ricevuto una proposta interessante e sono andata». 

Non ha l’impressione che il mondo sia diventato più pericoloso?
«I decessi per incidenti e omicidi in realtà stanno diminuendo, mentre aumentano quelli per cancro. È solo che attraverso i media siamo più coscienti dei pericoli. Qui in California non ci sono i grattacieli di New York che i terroristi avevano preso di mira, ma viviamo con l’incubo del terremoto. È la nostra dimensione, la fragilità. Basta saperlo e difenderci col buonsenso».

lastampa.it

Foto © Ansa

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