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mandela-corteoIntellettuali ed ex attivisti accusano gli occidentali: “Stavano con l’apartheid”
di Paolo Mastrolilli - 10 dicembre 2013
Il mondo viene a Johannesburg, oggi, per inchinarsi davanti al mito di Nelson Mandela, ma non è stato sempre così: «Esistono prove circostanziali - ci dice George Bizos, storico amico e avvocato di Madiba - che gli americani condivisero col governo sudafricano le informazioni di intelligence grazie a cui fu arrestato. Inoltre diversi Paesi europei hanno finanziato e armato il regime dell’apartheid. Le cose sono cambiate veramente solo nel 1985, consentendomi di avviare i negoziati segreti che poi hanno portato alla sua liberazione». 

Decine di capi di stato stamattina alle 11 andranno nello stadio Fnb di Johannesburg, per il tributo che sarà il funerale politico di Mandela. Alla vigilia la Bbc ha intervistato la figlia maggiore di Nelson, Makawize, che ha raccontato la serenità della sua morte: «Fino all’ultimo istante ci ha avuti vicino: figli, nipoti, la moglie Graça». Però una vecchia amica di Madiba, Nadine Gordimer, era stata la prima che ci aveva sollecitato a non dimenticare i problemi del passato: «Se il regime dell’apartheid è durato così a lungo, è dipeso pure dal sostegno che riceveva dall’Europa: soldi, e anche armi».

Bizos era la persona giusta a cui chiedere, perché nel 1964 aveva difeso Mandela durante il processo di Rivonia, che lo aveva condannato all’ergastolo: «Sappiamo che la Cia aveva seguito Nelson durante il viaggio in Europa e Africa del 1962, fino al rientro in Sudafrica. Ci sono prove circostanziali che dimostrano come avesse poi condiviso queste informazioni col regime». A passare le notizie sarebbe stato il diplomatico Donald Rickard, che ha negato tutto al «Wall Street Journal», e le dritte americane avrebbero portato all’arresto del 5 agosto 1962, anche se poi lo stesso Mandela ha scritto nella biografia che la propria cattura non poteva essere scaricata sulla Cia, ma piuttosto andava imputata agli errori che aveva commesso nel nascondersi.  

Bizos continua a credere che gli Usa passarono le informazioni chiave, e collega questo comportamento ai rimproveri della Gordimer per l’Europa: «Il motivo stava nella propaganda del regime, che era riuscita a dipingere Madiba come un pericoloso terrorista comunista. Pensate che il governo aveva equiparato l’Anc alle Brigate Rosse. Per quanto ne so io, non ci furono mai contatti tra le Br e l’ala militare, Umkhonto we Sizwe, ma gli americani ci credettero». Lo fecero al punto che Mandela è rimasto ufficialmente nella lista dei terroristi di Washington fino al 2008: per entrare negli Usa aveva bisogno del via libera del dipartimento di Stato, cosa che lo stesso segretario Condoleezza Rice aveva definito «piuttosto imbarazzante». 

Il regime aveva ottenuto il sostegno di diversi Paesi occidentali, a partire da Gran Bretagna e Usa, proprio perché li aveva aiutati nella sfida contro l’Urss. L’accusa a Mandela di essere comunista era così ricorrente, che il giorno dopo la sua morte il South African Communist Party ha pubblicato una nota in cui ha ribadito che era membro del partito e faceva parte del Comitato Centrale. «Io - ci ha detto Mac Maharaj, compagno di prigione di Madiba a Robben Island e attuale portavoce del governo - non ho tempo per queste fesserie. Se lo dicono loro, chiedete ai comunisti. Lui li voleva fuori dall’Anc, in realtà». 

A causa di questo sospetto, però, per anni Londra e Washington avevano frenato le sanzioni da parte dell’Onu. Quando nel 1986 i senatori Ted Kennedy e Lowell Weicker presentarono finalmente una legge per penalizzare Pretoria, Reagan cercò di fermarli col veto, ma fu battuto. «Solo a quel punto - ricorda Bizos - la situazione cominciò davvero a cambiare. La pressione dell’opinione pubblica, dei giovani, e il tramonto della guerra fredda aiutarono. Il momento chiave fu quando le banche Usa rifiutarono di rinnovare i prestiti a breve termine al governo sudafricano. A quel punto anche gli uomini d’affari afrikaner capirono che l’apartheid non era più sostenibile, e gli conveniva abbandonarlo. In quei mesi, infatti, cominciai a Dakar le trattative segrete per la scarcerazione di Mandela. Ci vollero ancora quasi cinque anni, ma sapevamo che la libertà era arrivata».

lastampa.it

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