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di Antonio Ingroia
30 luglio 2014

Possibile in Italia affrontare il tema delicatissimo della natura, della funzione e dei limiti del regime carcerario differenziato del 41 bis fuori degli schieramenti militanti da tifoseria scalmanata sugli spalti, garantisti da una parte e antimafiosi dall’altra? Possibile aprire un dibatttito serio e civile in cui ciascuno ascolti gli argomenti altrui e rispetti l’interlocutore senza insultarlo di essere, a seconda, bieco torturatore di poveri carcerati o complice dei mafiosi? Dopo tanti anni di tentativi a vuoto, nutro più di qualche scetticismo, ma ciò nonostante insisto. A volte l’ostinazione paga. E sono così ostinato da porre una questione tanto delicata sul più incandescente banco di prova possibile, visto che si tratta di un caso limite, quello di Bernardo Provenzano, oggi ricoverato in condizioni di salute assai precarie ma pur tuttavia sottoposto ancora al 41 bis. Le opposte tifoserie enfatizzano, da una parte, il suo stato di salute per qualificare il 41 bis come un accanimento carcerario gratuito equiparabile alla tortura, e dall’altra parte, il suo passato criminale, che ha seminato orribili stragi e omicidi, per osteggiare qualsiasi allentamento nel trattamento detentivo.

Del resto, è proprio nei casi limite che vengono sottoposti a verifica i principi generali dell’ordinamento. Principi fondamentali che oggi vengono in conflitto su due nodi cruciali: l’umanità della pena, che secondo costituzione non ha solo finalità retributive, e cioè punitive, ma anche rieducative per il condannato e per la comunità; e, dall’altro lato, il principio, non meno irrinunciabile, della effettività e certezza della pena, principale antidoto contro l’impunità dei colpevoli, impunità su cui ha costruito tanta fortuna, autorevolezza e potere l’organizzazione mafiosa. La soluzione del conflitto è trovare il giusto punto di equilibrio, senza sacrificare nessuno di quei due principi fondamentali del sistema penale, ma facendo sì che ciascuno sia un limite dell’altro. Una pena umana ma effettiva e certa; una pena certa ma non disumana. Facile a dirsi. Ma vediamo i fatti.
Provenzano. Ho conosciuto Bernardo Provenzano per decenni attraverso le carte di tante inchieste: Provenzano “’u tratturi”, detto così per la facilità con cui spianava – uccidendoli – i propri avversari, interni ed esterni alla mafia, e perciò responsabile di decine e decine di omicidi e stragi fra i più terribili della storia di Cosa Nostra, in ultimo le stragi palermitane del 1992 (Falcone e Borsellino) e le stragi indiscriminate del continente del ’93 che uccisero tante vittime innocenti (a Roma, Firenze e Milano). Ed ho conosciuto, sempre attraverso quelle carte, anche Provenzano “il ragioniere”, il raffinato stratega mafioso che sapeva usare la violenza ma anche le arti della diplomazia bellica e della politica. I suoi capolavori criminali in quel periodo furono la strumentalizzazione di un politico mafioso che fu sindaco e assessore a Palermo negli anni del sacco edilizio, e cioè Vito Ciancimino, corleonese come lui; e poi – da ultimo – il traghettamento della mafia dallo stragismo all’affarismo servendosi della “trattativa Stato-mafia”. Quel Bernardo Provenzano è stato fra i criminali più sanguinari del secolo scorso. E perciò fra i più pericolosi e colpevoli. E questo resta incancellabile.

Ho poi conosciuto un altro Bernardo Provenzano. Lo andai a sentire il 31 maggio 2012, dopo un suo apparente e anomalo tentativo di suicidio, per capire come stava e cosa stava accadendo in quel carcere. Incontrai un uomo vecchio, stanco e malato, che forse avrebbe voluto raccontare qualcosa di più, ma era frenato da qualcosa o da qualcuno. La situazione di costrizione dove si trovava, le violenze e le minacce che poteva aver subìto in carcere, la difficoltà a violare la sua cultura ed il suo codice, o la preoccupazione di danneggiare i suoi familiari, chissà. Ad ogni modo, non ebbi la sensazione di avere di fronte il capomafia efficiente ed implacabile con le sue vittime che era stato per tutta la vita, come le carte, i processi e le sentenze me lo avevano consegnato. Avrei voluto tornare a sentirlo e approfondire quella verifica, ma non ne ebbi neppure il tempo perché qualche mese dopo lasciai la Procura di Palermo. Ora leggo che le sue condizioni da salute si sono aggravate ed è perciò ricoverato. Immagino che sia un altro Provenzano ancora, sempre più lontano dal boss che avevo conosciuto sulle carte.
Il 41 bis. Il 41 bis, che ho conosciuto dopo l’introduzione del regime differenziato per i mafiosi nel post-stragismo del ’92, e che ho difeso per anni da critiche militanti ed infondate, era una cosa diversa da quella che vedo oggi. E credo che occorra tornare alla sua ispirazione originaria. Il 41 bis non è stato concepito come afflizione suppletiva per i detenuti ritenuti più pericolosi, ma misura mirata alla specifica finalità preventiva di impedire che i capimafia potessero comunicare con l’esterno per dare ordini, come troppe volte è accaduto nella storia della mafia.
Vige, invece, un generale malinteso sulla reale funzione del 41 bis, malinteso incoraggiato anche dall’estensione di tale regime ad altri detenuti, ritenuti più pericolosi dei comuni, come i terroristi, che però non sono qualificati dalle caratteristiche dell’organizzazione mafiosa capace di tenere i rapporti con i capi in carcere. Se tornassimo allora all’ispirazione originaria del 41 bis, la sua funzione sarebbe più chiara e dovrebbe quindi essere applicata solo ai capimafia ancora in grado di reggere le fila dell’organizzazione anche dall’interno del carcere, così restituendo senso ed efficacia all’istituto che verrebbe limitato nella sua applicazione ad alcune decine di detenuti, perciò meglio controllati, e andrebbe revocato a chi tali caratteristiche di pericolosità attualmente non ha. Rimesso su binari di razionalità e coerenza rispetto all’ispirazione originaria, il 41 bis potrebbe perciò venire adottato conciliando i principi di umanità e di efficacia e certezza della pena. E la magistratura sarebbe libera da pressioni e condizionamenti delle tifoserie contrapposte per poter decidere se davvero l’attualità delle condizioni di salute di Provenzano e dei suoi rapporti con il mondo di Cosa Nostra possa giustificare la permanente applicazione di un regime che non deve avere alcuna funzione sanzionatoria, ma soltanto la finalità preventiva di impedire i collegamenti col mondo criminale di provenienza.
Insomma, il Provenzano che ho conosciuto attraverso le carte dei processi e delle sentenze merita, giustamente, l’ergastolo, invece al Provenzano che ho conosciuto nel 2012, e che ancor meglio potranno valutare oggi i magistrati competenti, il 41 bis a me sembra che non serva, come non serve per tanti altri detenuti per fatti non di mafia. E meglio sarebbe applicare il 41 bis solo ai capimafia in carcere ancora oggi operativi. La mia posizione è ovviamente lontana anni luce da chi, come nel 1993 fece l’allora Ministro Conso, ritenne andasse indiscriminatamente allentato il 41 bis o da chi oggi ne predica l’abolizione. E neppure si tratta di ragioni umanitarie, ma di applicare la legge secondo la ratio ispiratrice del regime carcerario differenziato per i mafiosi. Ma è possibile oggi aprire un serio dibattito in argomento? Ne dubito. Perché un confronto di idee e non di scontri polemici si potrà avviare solo quando usciremo dalla logica delle fazioni contrapposte che vedono in un’eventuale revoca individuale del 41 bis quella rinuncia definitiva allo strumento che gli uni temono e gli altri auspicano. Mentre invece la revoca del 41 bis per questo Provenzano non ne intaccherebbe la funzione, anzi la rafforzerebbe, perché il 41 bis resta indispensabile ed utile purché usato secondo la sua funzione originaria (magari riaprendo carceri “dedicati” al 41 bis come Pianosa e L’Asinara, frettolosamente chiusi) senza piegarlo a finalità improprie. E quindi dannose ed abnormi. Ma temo restino parole al vento.

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