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Con apparente ritardo scrivo di Letizia. Da tempo, mi sono reso conto che scrivere nell’immediatezza della scomparsa di persone alle quali si è voluto bene, rende quasi obbligatorio il ricorso a una retorica celebrativa che finisce con l’offuscare un ritratto che di celebrazioni e retorica non ha invece alcun bisogno.
Ieri era giusto - e inevitabile, e doveroso - ricordare che Letizia è stata fotografa di fama internazionale. Di quanti premi e riconoscimenti collezionò. Che raccontò per immagini, allora in bianco e nero, la Palermo e la Sicilia di mafia che il mondo non sapeva ancora cosa fossero. Della sua splendida famiglia, tutta al femminile. Che fu libera, coraggiosa.
E non solo di fronte allo sguardo torvo di Luchino Bagarella, ritratto in manette, ma molto più a lungo, e negli anni, di fronte agli sguardi imbarazzati di tanti palermitani che la consideravano insopportabilmente ribelle, in una città politicamente proverbiale più per i suoi silenzi enigmatici che per le sue parole. Una città avara di generosità e riconoscimenti. Solo chi ha conosciuto davvero Letizia sa quali furono i suoi tormenti e i prezzi che dovette pagare per riuscire a essere sino in fondo Letizia.
In una intervista lei dice, per esempio, che sperava di riuscire a vivere sino a vedere la sconfitta della mafia. Ma riconosce desolatamente che la mafia non fu sconfitta allora, non lo è stata oggi, e che le sarebbe sopravvissuta. E così è stato.
Le sue parole, però, non sono state raccolte, in una Palermo a forte narrazione mediatica da parte dei circoletti che dell’argomento non vogliono più sentire parlare. Intendiamoci: professoroni che vanno per la maggiore.
Insopportabilmente ribelle, dicevamo. 
Posso dire di ricordarla sempre in prima fila.
E negli ultimi anni, in prima fila, ci veniva claudicando. E magari dopo aver cambiato un’altra volta la tinta dei capelli. Ed erano sempre scelte coraggiose a muoverla, a fianco di chi rischiava per le stesse cose per le quali rischiava lei, e per le quali aveva sempre rischiato. Insopportabilmente ingombrante, per la città ufficiale.
Né mi sembrava necessario, oggi, raccontare quando ci conoscemmo per la prima volta (mezzo secolo fa?) e quanto mi fu vicina quando fui cronista alle prime armi. Di fronte a una personalità come la sua, gli aneddoti in comune, ora che lei non c’è più, risulterebbero piccini.  
Quella che segue è l’intervista che le feci per Il Fatto Quotidiano in occasione del suo ottantesimo compleanno. 


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La fotografa, Letizia Battaglia © Arturo Patten



Auguri Letizia Battaglia, la Vedetta di Palermo

Compie oggi 80 anni la grande fotografa che meglio di chiunque altro ha raccontato per immagini il volto profondo della Sicilia e di Cosa Nostra

di Saverio Lodato
Alla fine del nostro colloquio, ieri mattina, a casa sua, a Palermo, mi fa due regali. Una scelta di bellissime foto di Pier Paolo Pasolini, oggi esposte al “Centro studi Pier Paolo Pasolini” a Casarsa della Delizia. Lei le scattò nel 1972: “Io - dice - non conoscevo ancora Pasolini, ma lo amavo. E lo amavo perché detestavo tutti quelli che lo odiavano. E quando riuscii a scovarlo al Centro Turati, in Via Brera, a Milano, in un dibattito rovente sul suo film I racconti di Canterbury, non mi lasciai sfuggire l’occasione di ritrarlo. Ancora non facevo la fotografa”. Poi, si mette al pc e va alla voce “Piersanti Mattarella”. E mi mostra l’intera sequenza di quel tremendo 6 gennaio del 1980, in cui un giovanissimo Sergio Mattarella, futuro presidente della Repubblica Italiana, soccorre il fratello agonizzante intrappolato nell’auto crivellata dai colpi. Una sola è la foto che lei ha pubblicato e che ha fatto il giro del mondo. Ma ne ha un’altra dozzina, inedite, con le quali sta pensando di fare una pubblicazione interamente dedicata al presidente della Regione siciliana assassinato.

Nel frattempo, parla. Parla, e ricorda. E fa le sue domande, mentre risponde. Che fiume in piena che è Letizia Battaglia che oggi compie 80 anni. E che vuol cominciare parlando di Cinzia, Patrizia e Shobba, le sue tre figlie. E che – mi informa con i suoi occhioni dolcissimi – , sta diventando “persino bisnonna”. E mentre lo dice è la rappresentazione vivente della felicità.

È tornata di mattina presto da Milano, dopo essere stata a Bergamo, per una mostra che le hanno dedicato: “Mi viene incontro una signora, mi abbraccia e scoppia in lacrime: ‘Letizia’, mi dice, ‘lei mi fotografò a Palermo 30 anni fa’. Io non me ne accorsi e non sapevo chi fosse. Poi mi ritrovai in un suo libro . E mi racconta che ormai vive a Bergamo... miracoli del destino fotografico”. Ricorda il processo di Catanzaro, quando tremò di paura alla vista di Luciano Liggio - “Aveva uno sguardo fulminante” e la foto in bianco e nero venne un po’ mossa. Ricorda il calcio che le rifilò il killer corleonese Leoluca Bagarella. Ricorda quella mattina, quando si ritrovò sul pianerottolo cinque uomini della Dia che chiesero di entrare per visionare il suo archivio: “Con piacere, risposi. E il capo squadra: ‘Signora Battaglia, con piacere o senza piacere, noi abbiamo un mandato’. ‘Ma almeno ditemi che devo cercare’. ‘Democrazia cristiana e Socialisti’, fu la risposta. Restarono in casa per 10 ore. Tutti muniti di lenti di ingrandimento, esaminarono migliaia di negativi. Alla fine ne presero una cinquantina. Chiesi timidamente: ‘Vi sono stata utile?’. ‘Sì’ dissero, finalmente sorridendo”. Il motivo c’era, ma lei non lo sapeva. Avevano trovato la “foto regina” di Giulio Andreotti insieme a Nino Salvo: la prova processuale che Andreotti aveva mentito negando di conoscere i Salvo, i cugini mafiosi di Salemi: “Avevo fotografato Andreotti, ma non sapevo proprio chi fosse questo Nino Salvo accanto a lui... incredibile”. E fu, anche questa, foto che fece il giro del mondo.

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La bambina e il raggio di sole © Archivio L. Battaglia


Ricorda di quando Giovanni Falcone la volle conoscere. Ricorda quel 16 settembre del 1970, quando rapirono Mauro De Mauro, il giornalista del quotidiano L’Ora di Palermo: “Ero al giornale per consegnargli le mie foto, avendo già iniziato la collaborazione. Ma De Mauro lo attendemmo invano. Molto più tardi sapemmo quello che era accaduto”. E De Mauro non fu mai ritrovato.

Ricorda Ezra Pound. Ricorda Pina Bausch. Ricorda Jerzy Grotowski. Mi parla di Santi Caleca e di Franco Zecchin, entrambi noti fotografi, uomini molto importanti nella sua vita. E del regista teatrale Michele Perriera, o dell’analista Francesco Corrao. Parla degli anni della primavera di Palermo, quando fu “assessore alla vivibilità” – fra il 1986 e il 1990 – nelle prime giunte di Leoluca Orlando, il sindaco cui vuole un gran bene. E che forse, proprio oggi, in occasione del suo compleanno, le farà il gran regalo di annunciare che ai Cantieri culturali della Zisa, a Palermo, sarà aperto quel grande spazio dedicato alla fotografia per il quale lei si è sempre battuta.

Dal libro del profeta Isaia: “Va’, sii la Vedetta Notturna. Quello che vedi grida”. Questo è stata Letizia Battaglia: una Vedetta Diurna e Notturna. Altra definizione non saprei trovarla. La storia di questa “Vedetta” è stata raccontata mille volte. Improbabile che un giornale al mondo, almeno una volta, non abbia mostrato una sua foto. Ha ricevuto premi e riconoscimenti prestigiosi, pubblicato tantissimi libri. E se ne va ancora in giro per l’Italia a incontrare gli studenti nelle scuole, gli insegnanti.

Letizia, infatti, è stata amata ed è amata, dalle persone perbene. È stata odiata, ed è odiata, dai boss e dai criminali, perché ne mostrava le facce feroci e lo sguardo cattivo, quando finivano in manette; e perché, una volta immortalate, quelle facce sarebbero rimaste agli atti, trasferite di peso alla memoria e al giudizio dei posteri. E in tal senso, fotograficamente parlando, si può ben dire che uno scatto di Letizia Battaglia sia parola di Cassazione. Immagini inappellabili, appunto.

Non si separa mai da una macchina fotografica, – leggerissima, perché non occorrono mastodonti d’acciaio per far belle foto – perché vuole essere sempre pronta, giorno o notte che sia, a far la sua parte; a cliccare su tutto quello che le passa davanti; perché così ha sempre fatto, perché questo sa fare, convinta come è questo sia un mondo troppo bello e troppo balordo perché non ne si lasci traccia. Da quando aveva 37 anni – “Ma all’inizio sognavo di riuscire a vivere scrivendo”, ricorda – fotografare è stato il suo modo di aiutare gli altri, spingendoli a interrogarsi, a riflettere, facendoli vergognare, se necessario, con immagini dure, violente, inappellabili. Tantissime altre volte, invece, cavando il bello dove nessuno si sognerebbe mai di andarlo a cercare.

Guardate gli occhi dei “suoi” bambini, e lo capirete. E lo ha fatto a Palermo. Lo ha fatto nella città più martoriata e più cinica. Lo ha fatto nella città che conosce a meraviglia l’arte di chiudere gli occhi per non vedere e di tenere a freno la lingua per non parlare. Lo ha fatto nella città che non ha mai spalancato autostrade alle donne che volessero risvegliare la sua coscienza incartapecorita. Lo ha fatto a Palermo, dove per molti l’ideale sarebbe vivere e morire, – meglio ancora: vivere, uccidere e morire –, senza testimoni fastidiosi, che tolgono le bende alla mummia facendola apparire per quello che è.

Qualcuno potrebbe forse negare che è stata proprio Letizia Battaglia ad aver mostrato al mondo cosa era ed è – davvero – Palermo? Mi spiace solo di non essere riuscito a metter dentro tutto quello che mi ha raccontato. Ci saranno altre occasioni. Auguri Letizia.

Tratto da: Il Fatto Quotidiano del 5 marzo 2015

Foto di copertina originale © Francesca Romano

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La rubrica di Saverio Lodato 

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