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di Davide de Bari
Era una giornata molto calda, a Palermo, quella del 6 agosto 1980. Il Procuratore Gaetano Costa camminava lungo via Cavour, a pochi metri da casa sua. Girava senza scorta, perché non voleva che per causa sua morissero altre vite. Incuriosito da una bancarella di libri si avvicinò per sfogliare alcune pagine. Poi furono esplosi tre colpi d’arma da fuoco. Costa, colpito alle spalle da due killer che viaggiavano in moto, cadde a terra, inerme.
Quel delitto, nonostante la Corte d'Assise di Catania ne abbia accertato il contesto individuandolo nella zona grigia tra affari, politica e crimine organizzato, a tutt'oggi non ha colpevoli. Né mandanti né esecutori.

Da partigiano a magistrato impegnato nella lotta contro la mafia
Prima di essere un magistrato (si laureò nella Facoltà di Giurisprudenza di Palermo e vinse il concorso in Magistratura) Gaetano Costa fu un partigiano impegnato nella lotta di Resistenza in Val di Susa durante la seconda guerra mondiale. Dopo la fine del conflitto iniziò a lavorare presso il tribunale di Roma e in seguito chiese il trasferimento alla Procura della Repubblica di Caltanissetta. Fu qui che svolse maggiormente la sua attività di magistrato prima da sostituto procuratore e poi da procuratore capo, dimostrando un’alta preparazione professionale, indipendenza ed equilibrio.
Costa fu uno di quei magistrati che riuscì a intuire sin dagli anni Sessanta che la mafia aveva subito una radicale mutazione e che si era annidata nei gangli vitali della pubblica amministrazione controllandone gli appalti, le assunzioni e la gestione in genere. Infatti, sosteneva che per combattere adeguatamente la mafia c’era bisogno di adeguati strumenti legislativi per colpire i patrimoni dei mafiosi.
In occasione della nomina a procuratore capo di Palermo, Costa, durante la cerimonia di insediamento, disse: “Vengo in un ambiente dove non conosco nessuno, sono distratto e poco fisionomista. Sono circostanze che provocheranno equivoci. In questa situazione è inevitabile che il mio inserimento provocherà anche dei fenomeni di rigetto. Se la discussione però si sviluppa senza riserve mentali, per quanto vivace, polemica e stimolante, non ci priverà di una sostanziale serenità. Ma ove la discussione fosse inquinata da rapporti d'inimicizia, d'interlocutori ostili e pieni di riserve, si giungerà fatalmente alla lite”.

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Nel breve periodo di sua gestione della Procura di Palermo avviò una serie di delicatissime indagini nell'ambito delle quali, sia pure con i limitati mezzi all'epoca a sua disposizione, cercò di colpire al cuore la criminalità organizzata investigando sui patrimoni.
Tra gli uomini di fiducia all'interno del Palazzo di Giustizia vi era il capo dell’Ufficio Istruzione di Palermo, Rocco Chinnici, che quando divenne Procuratore Capo ne proseguì l'azione. I due si ritrovavano a discutere delle inchieste in ascensore, il solo posto dove non rischiavano di destare sospetti.
Al tempo le indagini vertevano sulle famiglie degli Spatola, dei Gambino e degli Inzerillo, sul filone investigativo che legava la mafia sicula a quella americana, sul nuovo business della droga condiviso dalle due organizzazioni. Una pista in precedenza battuta da investigatori come Boris Giuliano, ucciso dalla mafia il 21 luglio 1979, ed Emanuele Basile, capitano dei carabinieri della compagnia di Monreale, poi ucciso la sera del 4 maggio un anno dopo.

Lasciato solo
La condanna a morte del giudice scattò la sera dell'otto maggio del 1980. E' in quella data che firmò la convalida degli arresti di 55 mafiosi, in testa Rosario Spatola, fermati quattro giorni prima, subito dopo l’uccisione del capitano dei carabinieri Emanuele Basile. Un gesto coraggioso, ancor di più se si considera che fu lasciato solo dai suoi sostituti a firmare quell’ordinanza. “Per proteggere i suoi ragazzi - raccontò il figlio Michele Costa - firmò da solo tutti i provvedimenti quando capì che alcuni avvocati avevano avuto garanzie sul mancato sostegno da parte dei pm. Sciacchitano, lo stesso giorno, andò dall’avvocato Fileccia dicendo che aveva firmato tutto lui”.
E' in quell'atto che si nasconde il motivo della sua morte. Seppur l'evidenza della matrice mafiosa, a quarant'anni di distanza dal delitto verità e giustizia non sono altro che un buco nero. E sullo sfondo le stesse parole del magistrato, ricordate dal figlio Michele, che da sempre si batte per essa: "La memoria di mio padre è stata cancellata. Mio padre lo ha scritto prima di morire. Esiste per questi delitti una precisa esigenza: che si sappia qual è la scaturigine, la causa, ma non si sappia mai perché".

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