Questo sito utilizza cookie tecnici e di terze parti per migliorare la navigazione degli utenti e per raccogliere informazioni sull’uso del sito stesso. Per i dettagli o per disattivare i cookie consulta la nostra cookie policy. Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina o cliccando qualunque link del sito acconsenti all’uso dei cookie.

di AMDuemila
Oggi il 35° anniversario della loro morte

Ucciso, crivellato da oltre 200 colpi di kalashnikov, sotto gli occhi della moglie, in una delle azioni più violente e tragiche compiute da Cosa nostra. Così, il 6 agosto 1985, fu ucciso Antonio "Ninni" Cassarà, dirigente della squadra mobile di Palermo. Così morì Roberto Antiochia, tornato dalle ferie proprio per proteggerlo.

L'attentato
In quella calda giornata estiva i killer di Cosa nostra si erano appostati alle finestre dello stabile che si trovava di fronte all'abitazione di Cassarà, in via Croce Rossa. La furia omicida si scatenò alle 15.30, all'arrivo dell'Alfetta bianca blindata targata 728966. Di fronte alla raffica di proiettili per il commissario e per Antiochia, che cercò in tutti i modi di fare da scudo con il suo corpo per proteggere l'amico e superiore, non ci fu nulla da fare. Rimasero invece feriti Natale Mondo e Giovanni Salvatore Lercara.
Quel delitto, dopo la morte del commissario Beppe Montana avvenuto pochi giorni prima (il 28 luglio 1985), era di fatto annunciato. "Tutti quelli che fanno sul serio, prima o poi, vengono ammazzati" disse all'Ansa in un commento dopo la morte dell'amico. Cassarà aveva intuito che poteva essere il prossimo della lista e per quel motivo non voleva essere scortato e per un'intera settimana si era "barricato" negli uffici della Squadra mobile, senza mai fare ritorno a casa. Ed è proprio questo uno degli aspetti inquietanti del delitto, perché non si è mi saputo chi informò il commando di Cosa Nostra del suo ritorno a casa in quel preciso giorno.
Vi fu una talpa? Chi avvisò i mafiosi?
Certo è che quella di Cassarà fu una perdita pesantissima sul fronte investigativo. Basta ripercorrere la carriera del poliziotto per comprenderne il valore.

La storia
Dopo l'esperienza come capo della Squadra mobile a Trapani, Cassarà arrivò a Palermo in un momento particolarmente delicato, con l'esplosione della guerra di mafia (cento omicidi nel 1981, centocinquanta nel 1982), la morte di dalla Chiesa e del giudice Chinnici.

montana cassara c letizia battaglia

Beppe Montana e Ninni Cassarà © Letizia Battaglia


Collaborò in maniera attiva all’inchiesta Pizza Connection sul traffico internazionale di droga dalla Sicilia agli Usa. Quindi, insieme al Comandante della sezione Anticrimine dell'Arma dei Carabiniri, Angiolo Pellegrini, scrisse il famoso rapporto "Michele Greco + 161", un dossier fondamentale per la "politica giudiziaria" degli anni successivi in cui veniva fatta una radiografia delle cosche della Sicilia occidentale, con tanto di nomi, legami familiari, conti bancari, assegni, imprese e prestanome.
Indagò sugli esattori di Salemi, Nino ed Ignazio Salvo (i "Viceré" di Sicilia), in un tempo in cui anche solo pronunciare il loro nome era ritenuto rischioso. E rischiose erano quelle indagini sui rapporti tra mafia, politica ed imprenditoria.
Cassarà ebbe anche il coraggio di testimoniare al processo Chinnici che il giudice "pochi giorni prima di morire, voleva emettere dei mandati di cattura contro i Salvo". E a dirglielo, riferì alla Corte d'Assise di Caltanissetta, furono dei magistrati.
Esplose un polverone nel momento in cui i magistrati smentirono e alcuni funzionari della "mobile" di Palermo non ricordarono. Così Ninni Cassarà fu pericolosamente isolato. Qualche tempo dopo i Salvo furono arrestati e un giudice istruttore e un capitano dei carabinieri confermarono alla Corte il racconto del poliziotto, ma da quel momento Cassarà capì di dover stare ancora più attento.
Quando morì Montana, nel luglio 1985, con cui aveva condiviso l'impegno nella ricerca dei boss, si sentì ancora più solo. Antiochia, nonostante non si trovasse in servizio, decise di rimanere a Palermo per scortarlo. “Resto qui, resto con Ninni”, disse per telefono alla mamma e ai fratelli. Nonostante i tentativi di dissuaderlo la determinazione di Roberto era incrollabile.
Quando Cassarà e Antiochia vennero uccisi la madre di questi, Saveria, scrisse una lettera di fuoco dal titolo "Li avete lasciati soli" indirizzata al ministro degli Interni Oscar Luigi Scalfaro nella quale la donna recriminò tutte quelle mancanze e negligenze di Stato che al tempo lamentavano i poliziotti a Palermo, rimasti "soli", appunto, a combattere la mafia. Roberto "è morto nel volontario, disperato tentativo di dare al suo superiore e amico Cassarà un po’ di quella protezione che altri avrebbero dovuto dargli (...) Per questo provo tanta amarezza e tanto rancore verso questo potere governativo cieco e sordo che è pronto, rapido ed efficiente per i decreti “Berlusconi” o per trovare i fondi che raddoppiano il finanziamento ai partiti, mentre manda a morire indifesi, per carenza di mezzi e di volontà, uno dopo l’altro, gli uomini migliori delle forze dell’ordine e della magistratura", erano state le parole della madre del poliziotto, deceduta nel 2001. Al funerale partecipò l'allora presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, e lo stesso ministro Scalfaro, che venne però duramente contestato. La protesta per l'inerzia dello Stato si estese a tutto il Paese: ad Agrigento il personale della questura si auto-consegnò in blocco, a Roma 700 agenti rifiutarono il rancio per due giorni, mentre a Palermo 200 agenti chiesero il trasferimento. Il Viminale inviò così 800 tra poliziotti, carabinieri e finanzieri per la lotta alla mafia in Sicilia e la questura di Palermo venne riorganizzata con la fusione della Mobile con le volanti. Ancora una volta, come purtroppo insegna la storia d'Italia, per cambiare lo status quo d'immobilità e reticenza del Paese serve quel clima di indignazione e rabbia collettiva che sfortunatamente solo le tragedie sono in grado di provocare.

antiochia roberto c da vivi libera it

Roberto Antiochia


Il processo
Ma chi aveva voluto l'omicidio di Cassarà, e quindi di conseguenza quello di Antiochia? Allora il giudice Giovanni Falcone disse che Cassarà aveva avuto più traditori di Stato. Talpe che avevano fatto soffiate ai boss. Solo uomini in divisa infatti potevano conoscere i movimenti del vice-questore. Il suo agguato, come poi si venne a scoprire, era pronto da mesi. Ma per arrivare a questa conclusione, accertata in sede giudiziaria, si dovette aspettare qualche tempo. Nel 1989 iniziò il processo "Michele Greco + 32", che unificava le indagini sulla morte di Montana, Cassarà e Antiochia. La sentenza di primo grado, emessa il 17 febbraio 1995, condannò i principali esponenti della Commissione (Totò Riina, Bernardo Provenzano, Michele Greco, Bernardo Brusca e Francesco Madonia) all'ergastolo in qualità di mandanti, con sentenza poi confermata nel 1998 dalla Cassazione.
Durante il processo celebrato nel 1997 contro "Francesco Madonia + 25", il pentito Francesco La Marca riferì che per uccidere Cassarà i capi mandamento si erano accordati per far partecipare uno o più membri di ogni "famiglia". La prima riunione avvenne il 3 agosto, subito dopo la morte di Marino, al Fondo Pipitone, nel garage di Enzo Galatolo. Arrivato là, La Marca trovò il suo capo Nino Madonia insieme a Pippo Gambino, Raffaele Ganci, i fratelli Enzo, Giuseppe e Raffale Galatolo, Calogero Ganci, Giovanni Motisi, Paolo Anzelmo, Salvatore Biondino e altre persone che non conosceva, in tutto una ventina.
Su ordine di Raffaele Ganci, La Marca rubò un vespone e un vespino, portandoli al Fondo Pipitone, che però non vennero usati nella strage. Durante il sopralluogo in via Croce Rossa con Nicola Di Trapani verificarono che la radio ricetrasmittente fosse in grado di ricevere messaggi alla distanza di cento metri dal portone della casa di Cassarà. Il 6 agosto, appena la radio trasmise la notizia dell'arrivo del commissario, tre gruppi di uomini salirono le scale e si piazzarono alle finestre del secondo, terzo e quarto piano, in attesa dell'Alfetta bianca di Cassarà che venne raggiunta da una pioggia di proiettili. Il commando poi, come se nulla fosse, si dileguò senza difficoltà.

antiochia saveria da liberainformazione org

Saveria Antiochia, madre di Roberto


Saveria Antiochia, donna battagliera
Fondamentale nell'accertamento della verità fu il contributo di Saveria Antiochia, la madre del poliziotto caduto quel pomeriggio d'estate con Ninni Cassarà. Le sue battaglie politiche e sociali fecero in modo che non si spegnessero mai i fari della ricerca di verità su quell'agguato. “Ai giovani che mi chiedono cosa possono fare io rispondo sempre che sono le scelte che contano sia da ragazzi che da adulti… voi giovani avete la possibilità di cambiare questa società e che si possano avere verità e giustizia, dovete scegliere responsabilmente, col cuore, dopo aver studiato, da che parte stare”, diceva Saveria Antiochia agli studenti dell’università Bocconi nel lontano 1994. A 35 anni di distanza da quell'attentato e a distanza di 19 anni dalla morte di Saveria quelle parole restano ancora attualissime.