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di Aaron Pettinari
Il magistrato intervistato da La Repubblica

Dopo un giorno di silenzio e una pioggia di commenti contro la sua persona, da destra, da centro, da sinistra e anche all'interno della magistratura, il consigliere togato Nino Di Matteo torna a parlare dei fatti che lo hanno riguardato assieme al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Lo hanno accusato di "tradimento", di aver compiuto "atti politici" per puro "personalismo" e di aver "insultato le istituzioni". C'è stato chi si è domandato il perché sia intervenuto in diretta, via telefono, a Non è l'Arena, vedendoci chissà quale fine. C'è stato poi chi ha parlato di "equivoco" tra lui e il ministro, ma la realtà è un'altra e ancora una volta è proprio il magistrato a spiegare in una lunga intervista a La Repubblica.
"I fatti sono quelli, il mio ricordo è preciso e circostanziato" ha detto il pm che, assieme a Vittorio Teresi, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia, condusse il processo sulla trattativa Stato-Mafia.
Di Matteo ha dunque ripercorso la cronologia degli eventi, partendo dal 18 giugno 2018, quando ricevette la telefonata del ministro Bonafede: "Squillò il telefono una prima volta, con un chiamante sconosciuto. Non risposi. Suonò di nuovo. Era Bonafede. Con lui non avevo mai scambiato una parola. C’era stato solo un incontro alla Camera nel corso di un convegno sulla giustizia e poi un altro alla convention di M5S a Ivrea. La telefonata durò 10 o 15 minuti. Mi pose l'alternativa, andare a dirigere il Dap oppure prendere il posto di capo degli Affari penali. Aggiunse che dovevo decidere subito perché mercoledì ci sarebbe stato l'ultimo plenum utile del Csm per presentare la richiesta di fuori ruolo" e "chiuse il telefono dicendo 'scelga lei'".
Poi ha parlato dell'incontro a Roma: "Mi sedetti davanti a Bonafede e gli dissi che accettavo il posto di capo del Dap. Lui però, a quel punto, replicò che aveva già scelto Basentini, mi chiese se lo conoscessi e lo apprezzassi. Risposi di no, che non lo avevo mai incontrato".
Perché il ministro avesse cambiato idea non lo chiese in quel momento. Di Matteo rimase semplicemente "sorpreso". Alla domanda della giornalista Liana Milella ha aggiunto: "Devo presumere che quella notte qualcosa mutò all’improvviso. Bonafede insistette sugli Affari penali, parlò di moral suasion con la collega Donati perché accettasse un trasferimento. Non dissi subito no, ma manifestai perplessità. Siamo a giugno, disse Bonafede, lei mi manda il curriculum, a settembre sblocchiamo la situazione".
Di Matteo ha poi parlato di "cose indimenticabili", come quel che avvenne il giorno dopo, quando tornò in via Arenula per dire che, viste le nuove condizioni, "non era più disponibile": "Io gli dico di non tenermi più presente per alcun incarico, lui ribatte che per gli Affari penali 'non c’è dissenso o mancato gradimento che tenga'. Una frase che, se riferita al Dap, ovviamente mi ha fatto pensare".

Le esternazioni dei boss

Nella ricostruzione va fatto un passo indietro perché in quei primi giorni di giugno, in qualche maniera, nelle carceri italiane si era sparsa la voce che Di Matteo potesse essere nominato al Dap. Alcuni boss come Cesare Lupo, fedelissimo dei Graviano, i boss stragisti di Brancaccio, affermavano in maniera chiara che se fosse arrivato Di Matteo sarebbero stati tutti "consumati". "Dopo le elezioni alcuni giornali scrissero che c’era un’ipotesi Di Matteo al Dap - ha ricordato il magistrato nell'intervista - Dell’esistenza del rapporto lo appresi il giorno prima o lo stesso giorno della visita. Mi chiamarono da Roma dei colleghi per dirmi che c’era una cosa molto brutta che mi riguardava. In più penitenziari, per esempio all’Aquila, boss di rango avevano gridato 'dobbiamo metterci a rapporto col magistrato di sorveglianza per protestare contro questa eventualità'. Subito dopo 52 o 57 detenuti al 41 bis, ciascuno per i fatti suoi, avevano chiesto di conferire. A quel punto era stata fatta un’informativa diretta a più uffici di procura e al Dap".
Bonafede, tanto durante la trasmissione di La7 quanto nel post a propria difesa, ha confermato che quell'informativa era a lui nota, così come le dichiarazioni dei boss ed ha ribadito di non essere stato condizionato da quelle parole, tanto da aver contattato Di Matteo. Il ministro ha anche sostenuto di ritenere il Dag come l'opzione "migliore e la più adatta" in quanto "l’arrivo di Di Matteo avrebbe rappresentato un segnale chiaro e inequivocabile alla criminalità organizzata".
Ma se i boss avevano manifestato contrarietà e disappunto, minacciando anche proteste, perché stava per arrivare Di Matteo al Dap, non era in realtà quello il miglior modo per dare un "segnale chiaro e inequivocabile alla criminalità organizzata"? Questa domanda, netta, fu posta nel 2018 da Marco Lillo, sulle colonne de Il Fatto Quotidiano, oltre che da noi in maniera netta. Ma dal ministro non vi è stata mai una risposta, mai una smentita, mai un chiarimento.
Ma torniamo ai fatti. Di Matteo rimase colpito da quel cambio di opinione. "Pensai allora, e ho sempre pensato, di essere stato trattato in modo non consono per la mia dignità professionale. Io vivo una vita blindata da 15 anni, mi muovo con 15 uomini intorno che controllano ogni mio movimento. Sulla mia testa pende una condanna a morte mai revocata di Riina. Collaboratori attendibili continuano a dire che per me l'esplosivo era già pronto. Faccio il magistrato e con tutto quello che ho fatto nel mio lavoro sapevo e so che non devo chiedere niente", "da allora mi sono sempre chiesto cos'era accaduto nel frattempo. Se, e da dove, fosse giunta un'indicazione negativa, magari uno stop degli alleati o da altri, questo io non posso saperlo".
In molti hanno contestato al magistrato la scelta di essere intervenuto nella trasmissione riferendo questi fatti a due anni di distanza. Una domanda che non è mancata neanche da parte della Milella. E Di Matteo dapprima ha spiegato il motivo per cui non ha parlato da subito di quei fatti ("Per alto senso istituzionale non potevo dire perché non avete nominato me anche se c’era chi, accanto a me, faceva le ipotesi più fantasiose, ma io non ho mai voluto dire niente. Se avessi parlato sarebbe apparso fuori luogo, come un’indebita interferenza"), quindi ha spiegato il perché ha sentito la necessità di effettuare quella telefonata in diretta. "Dopo le dimissioni di Basentini, proprio come due anni fa, alcuni giornali hanno di nuovo scritto che mi avrebbero fatto capo del Dap. - ha ricordato - Quando Roberto Tartagliaè diventato vice direttore eccoli scrivere “arriva il piccolo Di Matteo”. Poi domenica sera, quando ho sentito fare il mio nome inserendolo in una presunta trattativa - e sia chiaro che lo rifarei negli stessi termini - ho sentito l’irrefrenabile bisogno di raccontare i fatti, al di là delle strumentalizzazioni".
Infine, per rispondere a chi lo ha apostrofato come "anti Bonafede" ha ricordato come in questi due anni non è mai stato condizionato dal fatto per commentare i provvedimenti presi dal Ministro della Giustizia. "Ho detto sempre quello che pensavo - ha ribadito - com’è accaduto sulla prescrizione. Io non sono uno che fa calcoli. Che rimugino su quanto dico e a chi lo dico. Ma dopo quei colloqui ci sono rimasto male e ho detto quello che pensavo quando ho sentito dire delle inesattezze. Non intendo giudicare il lavoro di Basentini, né contestare la scelta di Petralia, ma se si parla del perché non è stato scelto Di Matteo per fare il capo del Dap io ho il diritto di dire come sono andati i fatti".
Di Matteo ha dunque già annunciato di essere pronto a spiegare i fatti anche in sede istituzionale, qualora fosse chiamato a farlo.
Anche sul quotidiano La Stampa sono state riportate alcune dichiarazioni del consigliere togato che si dice pronto a difendersi anche di fronte ad eventuali iniziative disciplinari che potrebbero aprirsi al Csm, così come chiedono diversi consiglieri laici (Cinque Stelle compresi che parlano di "istituzione lesa"). Quindi ha puntualizzato a tutti quelli che lo vogliono far passare come un visionario: "Io non faccio illazioni. E non penso minimamente che il ministro Bonafede sia colluso con la mafia. Però è un fatto che abbia cambiato idea nel giro di 12 ore, tra un lunedì sera e un martedì mattina. E quel che non posso accettare è che si metta in discussione la mia lealtà".

Foto © Imagoeconomica

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