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di Marta Capaccioni
Presentato a Catania con Repici, Lodato e Bongiovanni

“Che dietro l’antimafia si muova la mafia è raro ma possibile”, scrive il Consigliere e presidente della Prima Commissione del Csm Sebastiano Ardita nel suo nuovo libro “Cosa Nostra S.p.A.”, presentato ieri a Catania, nella sede della Fondazione La città invisibile. “Più spesso può accadere - continua il magistrato - che dietro l’etichetta “antimafia” non si muovano i mafiosi, ma veri e propri gruppi di potere intenzionati a modo loro a contrastare alcune forme di criminalità mafiosa, ma questi non hanno niente a che spartire con l’antimafia, intesa come movimento antagonista di denuncia delle oscure trame che hanno la mafia ai poteri”. È il capitolo intitolato “L’antimafia dal ghetto alle lobby”. Forse quello più coraggioso dell’intero libro, in cui viene smontata l’antimafia delle belle parole, dietro alla quale si nascondono esponenti del mondo criminale, uomini dell’imprenditoria e rappresentanti delle Istituzioni. Un altro strumento del potere, di quella zona grigia che ha sempre cercato, in ogni modo, di distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dal vero cancro del Paese. Di questo e di altro si è parlato ieri. Un pomeriggio intenso, durante il quale, assieme al magistrato sono intervenuti l’avvocato Fabio Repici, che da sempre assiste i familiari vittime di mafia e collaboratori di giustizia, ed il direttore di ANTIMAFIADuemila, Giorgio Bongiovanni, che con la redazione, come lui stesso ha affermato, cerca di "fare la sua parte nella ricerca della verità, aiutando lo Stato". Un dibattito moderato dalla presidente della Fondazione Alfia Milazzo, nel corso del quale si sono intervallate alcune letture del libro da parte di Ida Bonfiglio, e dove non è mancato l’apporto artistico del cantautore Piero Romano con il brano “Catania Bene” e della Orchestra di giovani “Falcone e Borsellino” diretta da Moises Pirela.

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L’antimafia di ieri e di oggi
“Un magistrato che attua il discernimento aiuta noi a capire” ha affermato Bongiovanni all’inizio del suo intervento. Ed è così. Ardita ci fa capire che quella sporcizia propinata all’opinione pubblica nei canali televisivi come “antimafia” non è altro che un gioco del "sistema criminale" ormai infiltrato, non solo nei settori socio-economici e imprenditoriali, ma anche nei più alti vertici istituzionali del nostro Paese.
E infatti, non a caso, il capitolo dedicato a questo argomento parla delle trasformazioni dell'antimafia da ghetto a lobby.
Una trasformazione di un’antimafia che, come ha ricordato Repici, “combatte a mani nude contro il sistema criminale mafioso imperante”, i cui primi personaggi-simbolo sono stati Peppino Impastato e Giuseppe Fava, ad un’antimafia delle lobby, ossia dei gruppi di potere. E ancora oggi, ha affermato l’avvocato, “chi vuole raccontare la patologia dell’antimafia parla della vicenda Montante, mentre questo fenomeno e più vasto e più allarmante di quanto ci si immagini. "Se non si fosse messo fuori gioco da solo - ha aggiunto Repici - Montante avrebbe sicuramente raggiunto i più alti vertici delle istituzioni, quando quasi per un caso grazie ad un’indagine abbiamo scoperto un meccanismo. Ma nessuno sembra interrogarsi sulle finalità di quel progetto e sui rimedi affinché la storia non si ripeta. C’è la necessità di non commettere gli stessi errori, e non è detto che questo non accada perché dietro quel sistema potrebbe esserci qualcosa di più di un’iniziativa di potere; un chiaro disegno politico sull’antimafia, disegno politico che, chiusa la fase Montante, si è dispiegato in una maniera mirabolante".

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Il libro di Ardita: “Un ponderoso J’Accuse”
Tra i relatori doveva esserci anche Saverio Lodato, assente per motivi personali, ma le sue parole sono state riportate dalla voce del direttore Bongiovanni che ha al contempo ricordato come il giornalista e scrittore sia stato una "guida nella lotta alla mafia che è stato vicino a magistrati come Borsellino e Falcone" e che "raccolse le dichiarazioni drammatiche dopo il fallito attentato all’Addaura, quando Falcone disse 'non c’è solo la mafia ma ci sono anche menti raffinatissime che, insieme alla mafia, mi vogliono uccidere'".
Per Lodato "il libro di Ardita è di controtendenza, un ponderoso j’accuse che parla apertamente di Stato-Mafia e Mafia-Stato”. “Sono pagine nere di storia che sembra essersi scolorita - ha sostenuto Lodato - l’uccisione del giornalista scrittore Giuseppe Fava, i grandi appalti, i rapporti stretti tra le cosche di Totò Riina e quelle etnee di Nitto Santapaola, la strage della circonvallazione di Palermo come favore dei palermitani, il sacrificio del generale Carlo Alberto dalla Chiesa e altri nomi come Raffaele Lombardo, Mario Cancio San Filippo e poi Calogero Montante”.
Un libro che fa luce su un grave errore di sottovalutazione: quello che riguarda la Cosa Nostra catanese. Perché come ha ricordato Bongiovanni nel suo intervento “Cosa nostra siciliana non avrebbe avuto la potenza che ha senza la Cosa nostra catanese”.

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Un’analisi che era stata fatta anche dal giornalista Lodato nel pezzo sul libro di Ardita, riprendendo le parole del consigliere, in cui si diceva che “senza alleati che contano Cosa Nostra sarebbe già finita”. E in effetti a quest’ultima le famiglie mafiose di Catania hanno assicurato le giuste alleanze, nei rapporti con la ‘Ndrangheta calabrese, con le Istituzioni e con le famiglie barcellonesi. Per non dimenticare la logica di pensiero del capo mafia catanese Nitto Santapaola, il quale appoggiava, come ha chiarito Bongiovanni, “la corrente di Provenzano, il grande vecchio che ha trattato con lo Stato, che ha ‘consegnato’ Riina e che ha avuto rapporti con massoni, forze dell’ordine e servizi segreti”.
Oggi si cerca in ogni modo di “relegare” in secondo piano la mafia delle stragi. Come se fosse qualcosa che ha riguardato solo gli anni '92-'93. Ma si tratta di una mafia che agisce con la violenza e con gli attentati e che eventualmente viene ricercata, quando conviene, nei momenti storici particolari e di passaggio.
Non solo. Spesso si parla solo della mafia militare, cercando di seppellire ciò che avviene ogni giorno nelle stanze del potere. Perché come ha detto l’avvocato Repici “parlare della mafia, della mafia militare, diventa un facile alibi per salvare la antropologia dei concorrenti esterni”. Ossia della zona grigia, dei “colletti bianchi”. E mentre la mafia militare scompare quei concorrenti crescono sempre di più e sono diventati tantissimi. Peccato poi che pochi di questi vengano puniti.
E quindi, come si può parlare di mafia sconfitta?

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L’unico sconfitto è lo Stato
“Bisogna capire quanta responsabilità abbiamo in una città dove il fenomeno mafioso è molto diffuso anche a causa della povertà, quanta responsabilità da parte di noi borghesi, dalla gente che poteva impegnarsi e non lo ha fatto. Non è soltanto quello che facciamo ma è come lo facciamo”, ha chiarito il consigliere togato del Csm. Ardita ha infatti parlato degli “ultimi” nella accezione degli “emarginati”, ossia di quei soggetti che sono stati “abbandonati da una società che troppo spesso corre molto facilmente dietro al potere e nella quale il potere si dimentica di intere fasce di società”. E anche quest’assenza dello Stato è comoda ed è “funzionale alla impunità di intere fasce del potere. La giustizia ha bisogno di numeri, sono necessarie tante condanne. Sono necessari tanti ergastoli e tanti carcerati”.
La sconfitta più grande dello Stato però è quella che riguarda i giovani che vivono in quei quartieri e in quelle città abbandonate. Giovani che spesso sono costretti a scegliere “tra la strada e la strada” e che emulando grandi boss iniziano la loro carriera militare fin da piccoli. “Ma non c’è una risposta totale di sistema”, ha chiarito con forza il magistrato Ardita. “C’è sempre un atteggiamento a due velocità e c’è sempre questo compiacersi quando avvengono grandi retate, quando giovani alla prima esperienza vengono condotti nelle realtà penitenziarie, come se lo Stato avesse vinto reprimendo, mentre invece ha perso. È il momento in cui si certifica la sconfitta. Quando entrano 40/50 giovani, molti alla prima esperienza carceraria, lo Stato ha perso, non ne abbiamo salvato nemmeno uno di quelli”.

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E ha continuato ancora dicendo che c’è bisogno di un "nuovo garantismo che parta dal basso, che guardi con più attenzione, quando si vuole reprimere, alla storia delle persone che hanno avuto poco o nulla dai poteri pubblici. Noi non possiamo non metterci in discussione, e avere un approccio che sia uguale per tutti, un approccio nella uniformità della realtà”. È questa l’essenza dell’articolo 3 della nostra Costituzione: eguaglianza e differenziazione. Perché anche essere trattati allo stesso modo in situazioni completamente diverse è discriminazione. Infatti, come ha detto Ardita, “c’è una colpa di fondo della classe dirigente di questa società”. E diventa inaccettabile quando quel comportamento, quella debolezza umana che si sostanzia nell’aver infranto la legge, "viene tenuta da chi ha e svolge una funzione pubblica, da chi interpreta l’esigenza di far vibrare le regole e i principi dello Stato di diritto. È inaccettabile da chi ha una posizione socio economica privilegiata, questo è il punto, è l’articolo 3 della costituzione”.
E questo significa vivere in un Paese che si dichiara civile e pertanto attento ai diritti e agli interessi del proprio popolo.

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Foto © ACFB

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