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di Lorenzo Baldo
Terzo round per il boss mafioso Giuseppe Graviano al processo ‘Ndrangheta stragista. “Io non ho fatto né trattative né patti. Ho avanzato le mie lamentele per il carcere nei confronti di tutti i politici”. Ecco di seguito la sua interpretazione in merito alle intercettazioni relative alla “cortesia” che il “Berlusca” gli avrebbe chiesto: altro che stragi. “La bella cosa è scendere in politica. Poi c'erano le persone del nord che volevano una cosa di... poi c'è il fermo di questi imprenditori che a Napoli non hanno fatto la cortesia perché erano contro queste cose. Ed i vecchi forse si riferisce a Stefano Bontade che aveva paura che gli sequestravano il figlio”. E di fronte alle contestazioni del pm Giuseppe Lombardo sull'illogicità della risposta, una laconica replica: “Quando sento la conversazione le risponderò. In questo momento no. Questa trascrizione non la ho”. E infine: “Possono mettermi anche sottosopra ma non dirò niente. Se vogliono aspettare quello che dico...”. Un irriducibile, a tutti gli effetti. Eccola la (palese) conferma del suo ruolo di mafioso giunta dalle ultime dichiarazioni di Giuseppe Graviano. Che arriva al punto di continuare a negare la sua colpevolezza nelle stragi del ‘92 e del ‘93 (“Sono innocente ho una dignità, una serietà, non dico bugie”), una tremenda responsabilità consacrata invece in diverse sentenze di Cassazione.

Quella strisciante strategia
L’evidente anomalia di ciò che sta avvenendo resta comunque cristallizzata in questa sua parziale apertura: l’ambigua decisione di lanciare il sasso nello stagno per poi nascondere la mano. Nelle pieghe delle parole, scelte con cura nella sua deposizione, è racchiusa la motivazione della scelta di parlare di un capo come Graviano. Che, perseverando nella sua subdola strategia ricattatoria, sembra però rivelare un nervo scoperto.
Nella scelta di non voler dire tutto ciò che sa sui rapporti Stato-mafia si cela forse la consapevolezza di trovarsi in una condizione di minoranza rispetto a chi a suo tempo ha armato il braccio di Cosa Nostra per fare le stragi? O può ancora presentare il conto? Fino a che punto il timore per l’incolumità della sua famiglia, e in particolar modo per Michele, il figlio ventiquattrenne, lo vincola a desistere dal raccontare ciò che sa su quei “patti” tra il gotha della mafia ed alcuni uomini delle istituzioni? O forse Graviano rivive lo stato d’animo di Totò Riina mentre dialogava con la sua dama di compagnia Alberto Lorusso? Come è noto, il contenuto delle intercettazioni tra Riina e Lorusso, trascritte dalla Dia e depositate nel 2014 al processo sulla trattativa Stato-mafia, era parso fin da subito una sorta di confessione dello stesso Riina. Che, riferendosi alla strage di Capaci, era stato quanto mai sibillino: “Totò Cancemi (collaboratore di giustizia deceduto nel 2011, ndr) dice che dobbiamo inventare che la morte di Falcone ... che ci devi inventare, gli ho detto? Lui ha detto ... inc ... gli ho detto: se lo sanno la cosa è finita”. Perché Cancemi, ex boss di Porta Nuova e fedelissimo di Riina, aveva proposto al suo capo di “inventare” qualcosa in merito all'eccidio di Giovanni Falcone, della moglie Francesca Morvillo e degli agenti di scorta? Bisognava forse mostrare una versione “ufficiale” al popolo di Cosa Nostra per evitare che venissero alla luce particolari retroscena sui mandanti esterni alla mafia nell’ideazione delle stragi?
E’ anche questo il timore di Graviano? Che la sua figura “eroica” di “Madre Natura” venga messa in discussione dagli altri boss irriducibili, più o meno consapevoli di quei patti tra lo Stato e Cosa Nostra nella strategia stragista?

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Strage di Capaci © Shobha


Cancemi docet
Sono proprio le parole di Salvatore Cancemi a riconfermare quegli accordi tra Stato e mafia (accordi indicibili sui quali Graviano preferisce al momento tergiversare), fornendo così una chiave di lettura plausibile a questi interrogativi.
Più di diciotto anni fa era stato lo stesso Cancemi ad approfondirlo ad ANTIMAFIADuemila in diversi incontri durante i quali avevamo registrato le sue dichiarazioni (acquisite agli atti del processo sulla trattativa Stato-mafia, ndr), confluite nel libro “Riina mi fece i nomi di…” (ed. Massari). L’ex boss di Porta Nuova aveva affrontato i temi più delicati della sua collaborazione: dal ruolo di Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi nelle stragi, fino alla mancata cattura di Bernardo Provenzano.
“Davvero lei non ha capito che è tutto finito?”, aveva domandato amaramente Cancemi al nostro direttore. “Cosa Nostra ha vinto, e con lei la parte sporca dello Stato. Forse ci si poteva riuscire se Cosa Nostra fosse stata sola, non certo senza difficoltà: Cosa Nostra è come la gramigna, tiri un filo e ne spuntano altri dieci, ma fino a che sarà alleata con il potere non vinceremo mai. Non si rende conto cosa c’è dietro agli attacchi continui ai collaboratori di giustizia? Bastano gli articoli su un giornale o un servizio in televisione per fare il lavaggio del cervello pure ai bambini”.

L’appello di una madre a Graviano
Davanti allo sconforto di Totò Cancemi - la cui importanza collaborativa è stata più volte evidenziata nelle sentenze scritte nel nome del popolo italiano - non resta oggi che unirsi all’appello di una madre coraggio come Giovanna Maggiani Chelli, scomparsa prematuramente lo scorso 21 agosto. Le vibranti parole rivolte a Giuseppe Graviano dall’ex presidente dell’associazione tra i familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili attendono ancora una risposta. Che Graviano può dare.
“Signor Giuseppe Graviano – scriveva Giovanna tre anni fa – non la scarcereranno mai, lei morirà in galera al 41 bis, all’ergastolo ostativo, questo, è quanto Le è toccato per il Suo comportamento di vita. Vede, i nostri figli sono morti per le Sue scelte di vita”. “Lei ha una sola possibilità, se ne faccia una ragione, parli, scriva in una deposizione davanti ad un giudice, davanti ai giudici della Procura di Firenze, scriva bene chi le ha chiesto di far votare per lui tutta la mafia, con ordini ben precisi da dentro il carcere e fuori dal carcere, in cambio dell’annullamento del 41 bis”.

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L'ex presidente dell’associazione tra i familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili, Giovanna Chelli


L’appello di Giovanna Chelli diventava via via sempre più pregnante man mano che la lettera proseguiva: “Lo faccia Signor Giuseppe Graviano, dica a quei giudici che vuole parlare con la Procura di Firenze per pentirsi dei delitti da lei commessi in via dei Georgofili, e dica che è disposto a dire chi si è colluso con lei per avere voti e scambi mafiosi”. Ed era proprio la promessa successiva, scritta nel nome di tutte le vittime delle stragi del biennio ‘92/’93, a rimbombare forte: “Noi glielo giuriamo, non molleremo mai, il sangue dei nostri figli versato con troppa sofferenza non si cancella da via dei Georgofili, possono lavare quanto vogliono, strofinare con tutto il perbenismo e la retorica che vogliono, il sangue dei nostri cari è sempre lì e grida una forte richiesta di giustizia fino in fondo, oltre la mafia, fino là dove stanno coloro che con la mafia si sono collusi”. Giovanna proseguiva quindi sottolineando un dato oggettivo: dopo aver letto le trascrizioni delle intercettazioni tra Graviano e Adinolfi aveva avuto l’ennesima conferma di quel do ut des Stato-mafia che aveva portato alle stragi del ‘93. “Abbiamo capito che lei sa bene le cose, lo abbiamo capito, perché al contrario di tanti siamo in grado di mettere in fila anche le sfumature delle parole da Lei confidate al suo compagno di ora d’aria”. A dir poco tranciante la conclusione della missiva: “Non è vero che Lei è innocente per le stragi del 1993, Lei le ha fortemente volute, con gli altri, quelle stragi. Parli, Signor Graviano, parli, perché vede, noi siamo figurativamente, ma decisi, con la ‘lampada’ sui suoi occhi; parli, perché dal carcere lei non uscirà, fosse l’ultima cosa per la quale ci impegneremo con forza da ottenere su questa terra”.

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