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di Lorenzo Baldo
Berlusconi non sarebbe sopravvissuto nemmeno un anno, con un’informazione aggressiva e capace. L’avrebbero distrutto in mille occasioni: mi viene in mente il decreto salva-ladri. O le tangenti alla Guardia di Finanza. E naturalmente potremmo continuare per ore. Invece appare dove vuole, non risponde mai e impone la sua visione del mondo sul Paese. Ma in una democrazia l’informazione è il potere che dovrebbe sorvegliare gli altri. Infatti: in Italia la democrazia è zoppa”. Per analizzare il day after in seguito alle esplosive dichiarazioni del boss Giuseppe Graviano sull’ex premier Berlusconi si può ripartire dal 2011 con le parole del giornalista e scrittore statunitense Alexander Stille. Che ritrae un’Italia dalla democrazia “zoppa”. Solamente quattro anni prima, nel 2007, Rai 3 aveva trasmesso il film documentario “In un altro Paese” di Marco Turco tratto dal libro dell’autore americano “Excellent cadavers. The Mafia and the Death of the First Italian Republic” (Cadaveri eccellenti. La mafia e la morte della prima Repubblica italiana). Ad accompagnare Stille nel suo viaggio a dir poco dantesco era stata la grande fotografa Letizia Battaglia. “In un altro Paese - commentava lo scrittore, riferendosi a quella parte di magistratura coraggiosa che era stata capace di istruire il Maxiprocesso - gli artefici di una tale vittoria sarebbero stati considerati un patrimonio nazionale. Dopo aver vinto la prima battaglia a Palermo, ci si sarebbe aspettato che Falcone e i suoi colleghi fossero messi nella condizione di vincere la guerra. Invece in Italia avvenne proprio il contrario”. Sì, il contrario, plasticamente realizzato attraverso la tracotanza del potere politico (e non solo) di un uomo che ha cambiato - in peggio - la storia d’Italia: Silvio Berlusconi. Eppure nessuno scandalo ha generato il giudizio del Tribunale di Milano che, al processo per i diritti Mediaset (falso in bilancio, frode fiscale, appropriazione indebita), relativo all’inchiesta sui fondi neri accumulati da Berlusconi, lo ha descritto come un delinquente naturale, con una “naturale capacità a delinquere”, né tanto meno le altre sentenze che lo inchiodano immancabilmente alle sue gravissime responsabilità penali. Così come non ha alimentato alcun dibattito mediatico-politico la sua nuova iscrizione nel registro degli indagati nell’inchiesta sui mandanti esterni delle stragi del '93, o le tremende dichiarazioni del collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza su quell’incontro con Graviano il quale sarebbe stato entusiasta per essersi messo il Paese nelle mani grazie a B. e a Dell’Utri. Che altro serve?
“Spero che tra non troppo tempo il popolo italiano decida di consegnare Silvio Berlusconi al cestino della storia, da cui non sarebbe mai dovuto emergere”, aveva affermato il 21 gennaio 2006 l’ex sindaco di Londra Ken Livingstone. Due mesi dopo l’editorialista del Guardian, Martin Jacques, aveva rincarato la dose definendo Berlusconi “il più grave e pericoloso fenomeno politico in Europa. Rappresenta la più seria minaccia alla democrazia europea dal 1945. Il suo governo ha esercitato una maligna influenza sulla vita democratica italiana”.

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Sono passati quasi 15 anni e ancora Berlusconi resta una presenza ingombrante per il nostro Paese. Non solo B. non è finito ancora nel “cestino della storia”, ma viene comunque considerato come un leader con un peso politico (vedi alla voce Renzi &c.). E anche se Forza Italia naviga oggi su numeri lontani anni luce dal 61 a 0 del 2001, la recente vittoria in Calabria di Jole Santelli, fedelissima di B., è alquanto emblematica della rinnovata “vitalità” di un partito co-fondato da un condannato per mafia come Marcello Dell’Utri.
In un Paese alla rovescia come il nostro, con un’informazione che - salvo rare eccezioni - continua a prostrarsi al potente di turno, l’equazione impunità-oblio è presto fatta. Nell’Italia dove i trending topic di twitter sono prevalentemente quelli di gossip, quello che spicca è l’assenza di un’opinione pubblica attenta, capace di indignarsi chiedendo la verità sulle stragi di Stato.
In un altro Paese le dichiarazioni di Graviano avrebbero immediatamente animato interi talk show. Silvio Berlusconi, un ex premier, indicato da un boss stragista - che mai prima d’ora aveva parlato così chiaramente - come una persona che aveva incontrato durante la sua latitanza. Questo sì, dovrebbe scandalizzare intellettuali, politici, scrittori, giornalisti, uomini di Chiesa e i comuni elettori. Quanto meno per il rispetto che si deve a tutti coloro che sono morti senza avere giustizia per i propri cari, vittime della violenza politico-mafiosa come Giovanna Maggiani Chelli, Agnese e Rita Borsellino, Augusta Schiera e tanti altri. Ma questo non è il Paese della giustizia e della verità, per lo meno non ancora. Lo strisciante silenzio politico-istituzionale (ma anche mediatico, salvo le poche voci isolate) che si respira in queste ore attorno al caso Graviano-Berlusconi, rappresenta una palese risposta. Quella di uno Stato che si ostina a non voler tirare fuori gli scheletri dai propri armadi. Il messaggio lanciato da Graviano, intriso di ricatti, probabilmente orfani di quello che è stato un do ut des Stato-mafia, attende risposte. Che dovranno essere “esaustive”. Prima che lo stesso Graviano si decida a dire ciò che sa sui mandanti esterni a Cosa Nostra nelle stragi del '92/'93.
Le lacrime dell’ex pm Ignazio De Francisci, riprese nel film “In un altro Paese”, mentre parlava del sacrificio di Falcone e Borsellino, lasciano aperto uno straziante interrogativo. Che, alla luce delle dichiarazioni di Graviano, assume una drammatica attualità. “E’ stato un prezzo altissimo che hanno pagato, loro con la loro vita, e le persone morte con loro - affermava De Francisci -. Un prezzo che hanno pagato per il nostro Stato, per la Sicilia, per creare un futuro migliore per tutti noi. Però io me lo sono chiesto negli ultimi anni: ne è valsa la pena? Che siete morti a fare? Me lo sono chiesto più volte al punto in cui siamo. E non riesco a trovare una risposta”. Quella stessa risposta che deve invece trovarsi nell’impegno morale di ognuno di noi, affinché nessuno dei nostri martiri sia morto invano sull’altare di una impunità di Stato. Con l’unica arma che abbiamo a disposizione: la pretesa della verità.

Foto © Imagoeconomica

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