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di Davide de Bari - Video e Foto
Di Matteo, Tescaroli e Morra alla presentazione del libro ''Le mafie sulle macerie del muro di Berlino''

Spesso, erroneamente, all'estero c'è chi pensa che la mafia sia un fenomeno che riguarda l'Italia e gli italiani. Operazioni come quella di giovedì, che ha visto l'arresto di oltre trecento persone con fermi che sono stati operati anche in Germania, Svizzera e Bulgaria, dimostrano esattamente il contrario.
Ad onore del vero, però, è da tempo che la mafia può essere considerata come un fenomeno transnazionale ed uno dei momenti chiave nello sviluppo del sistema criminale può sicuramente essere individuato con la caduta del muro di Berlino.
In quel momento diverse famiglie mafiose si sarebbero insediate nel territorio tedesco con la Germania che ha visto la privatizzazione delle sue industrie dell’Est.
mafie macerie muro berlinoDa allora la rete degli affari si è sviluppata e perdura ancora oggi con il massiccio investimento di capitali di origine criminale in imprese legali. Ed è così che si alterano le leggi del libero mercato, influenzando, soprattutto nei piccoli centri, la democrazia. Di questo e altro si parla nel libro “Le mafie sulle macerie del muro di Berlino” (ed. Diarkos), scritto a quattro mani dalla giornalista Ambra Montanari e l’eurodeputata Sabrina Pignedoli, presentato giovedì al Senato della Repubblica, presso la Sala Santa Maria in Aquiro.
Ospiti d'eccezione il consigliere del Csm Nino Di Matteo, il procuratore aggiunto di Firenze Luca Tescaroli ed il presidente della Commissione parlamentare antimafia Nicola Morra. Così si è creata l'occasione per parlare del Sistema mafioso in tutte le sue forme.
"In Germania è vista come una cosa tra calabresi - hanno spiegato le autrici -. Anche quando c’è stata la strage di Duisburg, si pensava che fosse una cosa tra italiani e non riguardava il territorio tedesco”. Eppure non mancherebbero anche contatti di alto livello. L'eurodeputata Pignedoli ha raccontato come dai documenti, riportati anche nel libro, si parla di "esponenti di Cosa nostra che avevano rapporti con un avvocato legato alla massoneria tedesca, ma anche con altri professionisti e imprenditori”. Rapporti che si sono cementati nel tempo.
L’altra autrice, Ambra Montanari ha spiegato come "nel processo di privatizzazioni delle aziende dell’Est, dopo la caduta del muro di Berlino, sono emersi episodi di corruzione, ma i documenti sono venuti fuori poco a poco". Un elemento che ha reso ancora più difficile raccogliere le carte che sono state riportate nel libro.
Proprio Di Matteo ha riconosciuto il valore della pubblicazione in quanto parla di un tema che spesso viene "dimenticato e sottovalutato”. Di fronte ad una mafia sempre più all’avanguardia e al passo con la tecnologia, il magistrato ha ribadito che “bisogna agire attraverso iniziative economiche che escano dal territorio nazionale. La mafia non può essere combattuta fino a quando non è chiara a tutti. La giornalista Petra Reski mi spiegò che in Germania è difficile accendere i riflettori e chi vuole farlo viene visto con fastidio, come se si volesse dare un'immagine di un Paese che in realtà non è”. Secondo il consigliere è necessario "omologare anche gli altri paesi europei all’adozione di una legislazione antimafia" partendo dal dato che negli altri Paesi non è riconosciuto il reato di associazione mafiosa. "Oggi tutti Paesi guardano alla nostra legislazione come da imitare - ha proseguito - Bisogna far comprendere a chi non ha strumenti di contrasto alle mafie che presto si troveranno la mafia più forte proprio dentro casa. E questo noi abbiamo il dovere di dirlo in quanto siamo l’avamposto della lotta alle mafie”. Oggi, però, anche la normativa italiana sembra essere tornata al centro del dibattito politico-istituzionale: “Oggi vengono messe in discussione quelle norme antimafia (sulle intercettazioni, 41 bis, regolamento penitenziario ed ergastolo ostativo) che i Paesi europei ci invidiano e che dovrebbero adottare. - ha continuato - Dobbiamo pretendere, prima ancora che esportare, di conservarle integre in quanto siamo arrivati a questo grazie al sangue di chi si è sacrificato in questa lotta”.

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Il consigliere del Csm, Nino Di Matteo


L'ergastolo ostativo
Di Matteo ha poi parlato dei rischi enormi che si corrono dopo le pronunce sull’abolizione dell’ergastolo ostativo da parte della Cedu e quella della Consulta sui permessi ai mafiosi. Lo ha fatto ricordando le famose frasi del capo dei capi Totò Riina che sosteneva: “Un mafioso può mettere in conto 8-9 anni di carcere ma non l’ergastolo”. Recentemente anche il boss di Brancaccio, Giuseppe Graviano, si era espresso in merito. "Mentre era intercettato ogni tanto affermava che prima o poi l’ergastolo non sarebbe stato più come prima - ha spiegato il magistrato - inoltre diceva che la sua speranza era relativa al dibattito e pronunce europee. Oggettivamente quelle sue previsioni in qualche modo erano giuste”. Secondo il togato “le bombe del ’92 e ’93 sono state messe, come dice la sentenza di primo grado del processo trattativa, per ricattare lo Stato e ottenere l’abrogazione dell’ergastolo. E secondo le indagini oggi molti ergastolani continuano a sperare in questo”. Sempre rispettando le sentenze, per il consigliere togato "le motivazioni segnano una strada che il legislatore potrebbe percorrere per attenuare gli effetti negativi delle pronunce". Per Di Matteo non “può essere la condotta” a stabilire se il mafioso può avere o non avere i permessi, ma “sarebbe auspicabile una norma che aggiunga l’eventuale venir meno del legame associativo e che questo debba derivare da dati certi attraverso indagini che potrebbe riguardare anche altre persone - ha affermato il togato -. Insieme al giudice di sorveglianza deve esserci anche, non solo un parere, ma anche la partecipazione delle procure distrettuali o nazionale, come già avviene in procedimenti per la revoca del 41bis. Il tribunale di sorveglianza dovrebbe decidere, dopo l’apertura di un’istruttoria. Affidare il tutto al giudice esporrebbe questi a dei rischi”.

La mafia come priorità politica
Certo è che una risposta importante nella lotta alla mafia deve arrivare necessariamente dalla politica. “Spero che la politica, con il pretesto di aspettare le sentenze definitive della magistratura ogni qualvolta un politico viene coinvolto in rapporti di collusione con le mafie, smetta di nascondere la testa sotto la sabbia". Ogni qual volta un politico viene indagato per rapporti con le mafie il consigliere togato del Csm ha ravvisato due tipi di reazioni: “La prima è quella della compagine politica a cui appartiene l’indagato e la seconda si ha quando si grida al complotto della magistratura politicizzata".
"Non è possibile che bisogna aspettare le sentenze definitive, perché ci sono responsabilità politiche non solo penali - ha poi proseguito - Un politico in contatto con un mafioso, anche se non sta commettendo un reato, mentre è intercettato dovrebbe far scattare delle responsabilità politiche”.
Il consigliere togato ha poi ricordato che “se si vuole fare il salto di qualità nella lotta alle mafie”, la “spinta deve partire” soprattutto da “Governo ed enti locali che devono avere al proprio centro quell'obiettivo. I sindaci maggiormente, prima ancora delle forze di polizia e magistratura, hanno l’opportunità di capire cosa si nasconde dietro a certi affari”. Il magistrato ha poi rammentato che spesso “i media aprono un’offensiva nei confronti di quei magistrati che hanno osato alzare il tiro del livello delle loro inchieste. Fino a quando la magistratura e forze di polizia si occupano di faide e traffico di droga va bene a tutti, anche se io la definisco antimafia necessaria o raso terra. Noi dobbiamo sperare che il fenomeno della mafia venga combattuto al suo cuore, ovvero il rapporto che hanno con il potere istituzionale”.

© Imagoeconomica


Fatti che si vogliono dimenticare
Guardando alla storia delle mafie nostrane Di Matteo ha confermato che la ’Ndrangheta oggi è la più pericolosa grazie agli ingenti patrimoni e capitali ed è la più evoluta nel campo del traffico di stupefacenti, ma non vuole dimenticare il ruolo di Cosa nostra che è stato fino a questo momento “unico al mondo, in quanto protagonista di delitti eccellenti e stragi”.
La mafia siciliana ha avuto, e probabilmente ha ancora, “una grande capacità di influenzare a livello nazionale l’esercizio del potere in generale - ha detto il consigliere del Csm - Ho sempre apprezzato l’opera di giornalisti, e non solo, di coloro i quali hanno aperto il varco della conoscenza delle attività delle mafie tradizionali del sud Italia anche a quelle regioni come l'Emilia Romagna o il Veneto. Però quando sento dire che proprio in ragione di quello che è venuto fuori da quei processi si deve considerare la mafia come un problema nazionale, io un po' rimango perplesso. Perché la mafia è un problema nazionale da molto tempo e riguarda proprio le alte sfere del potere. E non può essere che i cittadini del nord Italia scoprano solo oggi che la mafia sia un problema anche loro”.
Il magistrato ha così ricordato sentenze come quella sul sette volte presidente del Consiglio Giulio Andreotti, prescritto per aver avuto rapporti con la mafia fino al 1980, o ancora i processi come quello che ha condannato Marcello Dell’Utri per concorso esterno in associazione mafiosa, quelli sulle stragi del 1992 e ’93; e per ultima quella sulla trattativa Stato-Mafia. "I fatti emersi in questi processi - ha aggiunto - dimostrano e dovrebbero far capire a tutti che la mafia è un problema nazionale che ha condizionato e condiziona la nostra libertà e democrazia. Il problema è che sulla rilevanza, sul significato e le conseguenze di quei fatti oggi c'è una campagna del silenzio e di costruzione di un muro di gomma contro il quale devono infrangersi le voci di chi si limita a ricordare anche solo le sentenze passate in giudicato. E chi oggi cerca di ricordare questi fatti viene visto come un eretico o che vuole fare polemica a tutti i costi”.
Di Matteo ha anche parlato della figura del boss Matteo Messina Denaro e del protrarsi della sua latitanza: “Oggi viene considerato con fastidio chi ricorda che la lunga latitanza di Messina Denaro e il protrarsi di essa sia scandalosa. Non mi appassiona il dibattito se Messina Denaro sia il capo o no di Cosa nostra. Dobbiamo considerare che il boss di Castelvetrano è stato tra i principali protagonisti della stagione stragista del ’93 ed è certamente a conoscenza di tutti quei fatti ulteriori che devono essere accertati, che devono essere riferibili a singoli individui ma che sono certamente considerabili come sicuramente esistenti”.
E poi ha aggiunto: “Mi riferisco al fatto che Messina Denaro, quando nel 1993 guidò gli uomini che misero le bombe a Roma, Firenze e Milano, certamente avrà avuto dei suggerimenti per individuare gli obbiettivi da colpire. Si tratta di uomini che hanno vissuto il periodo delle stragi e che certamente sono in grado di conoscere i retroscena ancora giudiziariamente non accertati di quelle stragi. Ancora oggi è in libertà un soggetto che conosce retroscena delle stragi. Ecco perché scandalosa”. Sempre riguardo le stragi, Di Matteo ha spiegato che “tutto quello che si è fatto in questi 27 anni, al di là dei depistaggi, dimostra che nelle carte con ogni probabilità con la campagna stragista, improvvisamente interrotta nel ’94 con il fallito attentato all’Olimpico, non sono stati protagonisti solo gli uomini di Cosa nostra, ma anche uomini che fanno parte degli apparati dello Stato”.

tescaroli luca senato

Il procuratore aggiunto di Firenze, Luca Tescaroli


La storia della legislazione antimafia
Successivamente ad intervenire è stato il procuratore aggiunto di Firenze, Luca Tescaroli, che nel corso della sua storia si è ugualmente occupato delle stragi, in particolare di quella di Capaci, ed importanti inchieste.
Il magistrato è tornato a parlare della legislazione antimafia italiana, "in vetta in ogni Paese del pianeta". "Dovremmo essere riconosciuti anche in Germania, non tanto per i fatti che sono stati commessi, ma per la forza repressiva dell’antimafia. - ha detto il pm - Non dimentichiamo che in Italia lo stragismo è rimasto a lungo nel mistero e a distanza di 30 o 40 anni non sappiamo chi sono stati i mandanti e gli esecutori. Per quelle degli anni ’90 siamo a conoscenza che sono state decise da un organo di vertice come la commissione regionale di Cosa nostra”.
Il pm ha ricordato che il collaboratore di giustizia Tommaso Buscetta, nelle sue dichiarazioni, “non aveva parlato della forza deliberatrice della commissione e il pool antimafia non aveva consentito di conoscere il suo potere mentre noi siamo riusciti a conoscerlo e farli condannare”. E sulla ricerca della verità sulle stragi che hanno insanguinato il nostro Paese ha aggiunto: “E’ vero che non siamo arrivati alla verità piena, ma diciamo il bicchiere è quasi pieno. C’è la necessità di completare la ricerca della verità”.
Il consigliere del Csm ha spiegato che in Germania “non si conosce quello che è accaduto in Italia” ed è quindi “normale che ci sia una riluttanza ad affrontare l’esistenza e la pericolosità del fenomeno. In Italia per creare una coscienza dell’esistenza mafiosa ci sono voluti tanti morti, cosa che nel territorio tedesco non è avvenuto se non con la strage di Duisburg”.

La difficile lotta alla mafia in terra tedesca
Secondo il giudice “in Germania c’è una strategia che viene portata avanti e quella che la rappresenta è un’intercettazione di una cosca di ‘Ndrangheta di Cirò Marina quando degli affiliati dicevano che sul territorio bisognava agire come se si fosse in Chiesa, visto le opportunità che offre: è una culla che riesce a far fluttuare le esigenze e gli interessi mafiosi”.
Come anche ricordato nel libro, il reato di riciclaggio “non è punito quando viene commesso all’estero e quindi è un bacino per cercare di utilizzare le risorse provenienti dai traffici illeciti delle nostre mafie”. Da questo, secondo Tescaroli, deriva “l’esigenza di esportare i nostri strumenti che diventa fondamentale. Senza questa anche la nostra azione viene meno”.
Quindi sarebbe auspicabile a "delle modifiche affinché si arrivi ad allineamento di intercettazioni all’estero, italiani, anche all'estro. In Baviera, ad esempio, si può intercettare solo in casi di pericolo imminente. Un criterio estremamente rigoroso quando invece in Italia, nei casi di criminalità organizzata di tipo mafioso, di terrorismo, e ora anche per la pubblica amministrazione, bastano i sufficienti indizi di reato. Allora vedete che conviene delinquere in Germania, laddove vi è un meccanismo di repressione ancorato a criteri rigorosi?”. Non solo.
Altro problema è quello delle misure di prevenzione. “Le misure di prevenzione patrimoniali sono prive di un riconoscimento in Europa - ha sottolineato il procuratore aggiunto -. Si cerca di affrontare il tema attraverso l’utilizzo di uno strumento che è messo a disposizione da una convenzione del Consiglio di Europa siglato a Varsavia nel 2005 sul riciclaggio, la ricerca, il sequestro e la confisca dei proventi dei reati. Vi è una norma, all’art 21.1, che consente di inoltrare una richiesta per l’azione al fine della confisca, ma la possibilità concreta dell'utilizzo dello strumento, e quindi raggiungere l'obiettivo del congelamento del bene, viene rimesso alla volontà dello Stato a cui viene richiesto. Vi sono delle difficoltà derivanti dalle tempistiche. Perché non vi è un meccanismo che consente l'immediata esecuzione all'estero e occorre sempre passare dalla rogatoria con la complessità dei rapporti con lo Stato richiesto e la necessità delle traduzioni". Si vive così una situazione paradossale in cui la libertà di movimento permette alla mafia di agire senza difficoltà mentre l'azione di contrasto non ha gli strumenti e quelle tempestive che sarebbero necessarie per aggredire l’azione mafiosa”.

Convivenza mafiosa
Tescaroli ha poi ricordato come sia da 150 anni che conviviamo con realtà plurime come quella mafiosa. "Dobbiamo chiederci il perché - ha detto il procuratore aggiunto di Firenze - Lo Stato dispone di mezzi che potrebbero schiacciare la mafia, ma questo invece non è avvenuto. Sicuramente non è un problema solo di repressione, perché sarebbe auspicabile un lavoro di tipo preventivo, ma certamente una delle risposte a questa coesistenza è rappresentata dal fatto che la linea di discrimine tra lo Stato e le realtà mafiose non è così netta. E ciò impedisce che quello che è di gran lunga più forte possa schiacciare ed annientare questi portatori di morte. Ed è proprio lì, in quell’anello di collegamento dove si annidano i collegamenti delle organizzazioni mafiose con gli esponenti del mondo politico-economico e finanziario, che bisognerebbe colpire con determinazione per impedire che questo anello di collegamento si perpetui e permetta di trasformare mere realtà criminali di soggetti disposti ad uccidere, incendiare ed estorcere in qualcosa di più complesso capace di penetrare lo Stato, le strutture finanziarie e le strutture imprenditoriali del nostro Paese”.
Infine il pm ha anche parlato della concessione dei permessi ai mafiosi ricordando che già in passato si parlò dell'argomento: “In passato anche Pietro Algieri e Greco chiedevano di dissociarsi senza collaborare con la giustizia, dicevano che non né volevano fare più parte e manifestavano il proposito di prendere le distanze. Volevano tra l’altro benefici e permessi premio, ma questa cosa fu stoppata in quanto trattative con i mafiosi non si fanno”.

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Il presidente della Commissione parlamentare antimafia, Nicola Morra


Al riguardo è anche intervenuto il presidente della Commissione parlamentare antimafia, Nicola Morra, che ha spiegato come la sentenza della Consulta “debba essere rispettata, ma non si può non tener conto di chi ha sacrificato la propria vita in questa causa e in questo senso la commissione sta lavorando”.
Il presidente della Commissione antimafia, riferendosi al libro, ha parlato dei paradisi fiscali, riprendendo quanto detto anche da magistrati come Giovanni Falcone e più recentemente dal procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato: “Il capitalismo moderno è del tutto refrattario ai codici morali, non domanda mai che origine abbiano i capitali che vengono investiti in un territorio. Se il denaro non puzza e genera altro denaro, noi dobbiamo capire che questa propensione all’accumulazione è depositaria di valori nichilistici, come ha detto Rocco Chinnici, che ha rappresentato le mafie come accumulazione di denaro. - ha poi concluso Morra - Quando ci si dimenticano dei fini e c’è solo la ricerca del potere fine a sé stesso, c’è una classica trasposizione tra mezzo e scopo. E' quella la cultura mafiosa, più o meno ne siamo quasi tutti affetti”.

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