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Intervista all'ex Procuratore di Messina
di Aaron Pettinari

"Su mandanti esterni stragi interrogativi ancora aperti. E l'attuale politica antimafia è inadeguata"

Dalla recente desecretazione degli atti della Commissione parlamentare antimafia alle inchieste sulle stragi. Poi ancora gli storici processi al sette volte Presidente del Consiglio Giulio Andreotti, all'ex senatore Marcello Dell'Utri, il processo Stato-mafia, lo scandalo del Csm e le nuove dinamiche dell'organizzazione criminale Cosa nostra. Sono questi gli argomenti che abbiamo affrontato nell'intervista all'ex Procuratore capo di Messina, oggi in pensione, Guido Lo Forte. Un'analisi a 360° sui più recenti fatti che hanno riguardato il mondo della giustizia, la lotta alla mafia e la ricerca della verità su fatti e misfatti della nostra Repubblica.

Procuratore Lo Forte, 27 anni dopo la strage di via d'Amelio la Commissione parlamentare antimafia ha desecretato tutti gli atti che vanno dal 1963 al 2001. Può essere letto come un primo passo della politica verso l'assunzione di responsabilità per la ricerca della verità?
Senza dubbio un segnale positivo. Ve ne sono stati altri, come ad esempio la recente legge “anticorruzione” e quella sul voto di scambio politico-mafioso.
Lo scenario appare ancora tuttavia contraddittorio, perché continua a riaffiorare una sorta di insofferenza al controllo di legalità, che ancora oggi non manca di far parte del background di una certa classe dirigente, e che oltretutto sembra procurare più consensi di quanti ne faccia perdere.
Va coltivata la speranza che nella nuova legislatura si parli di legalità non più come slogan, ma come obiettivo vero per la realizzazione della democrazia, che consiste nell’equilibrio dei poteri costituzionali e nell’applicazione delle regole, uguali per tutti. La legalità non può essere uno slogan, una saltuaria opportunità d’investimento politico e mediatico.

Che effetto le ha fatto sentire le parole amare di Borsellino che di fatto descrivono un clima difficile ed ostile in un tempo dove, paradossalmente, lo Stato aveva dato una risposta importante con il maxi processo?
Bisogna ricordare che tra la fine degli anni ‘70 e l’inizio degli ‘80 a Palermo e in tutta Italia il fenomeno mafioso era ingenuamente e a volte anche maliziosamente sottovalutato, ridotto a un fatto di folklore. Questo riduzionismo non fu più possibile dopo le indagini di Falcone e Borsellino e il maxiprocesso. Si dimostrò che Cosa nostra non era solo una mentalità, una coalizione di malavitosi e di spacciatori, ma era molto di più, fino a essere quasi uno stato illegale con una sua politica di relazioni con la società, l’economia e segmenti delle istituzioni.
Il lavoro di Falcone e Borsellino non fu sufficientemente compreso né sostenuto in una situazione di sottovalutazione di carattere generale. Furono i successi a dimostrare quanto fosse clamorosamente sbagliato il riduzionismo. Era però anche un lavoro che qualcuno trovava scomodo. E sappiamo delle collusioni che Cosa nostra di allora aveva con politica e imprese che ne facevano un unicum a livello internazionale.
Non a caso, dopo i primi successi col maxi processo cominciò contro Falcone e Borsellino una campagna in parte politica in parte mediatica di denigrazione, di attribuzione di presunti disegni politici e di potere. Lo stesso Falcone denunciò in audizione al Csm di essere vittima di una campagna di denigrazione di inaudita bassezza.


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Il giudice Paolo Borsellino © Shobha


Negli ultimi anni vi sono state due sentenze, quella sulla trattativa Stato-mafia e quella sul Borsellino quater, che hanno portato alla luce una serie di fatti. In particolare quella della Corte d'Assise di Palermo ha anche individuato nella trattativa la motivazione di un accelerazione della morte di Borsellino, appena 57 giorni dopo Capaci. Lei che idea si è fatto? Che ricordo ha di quel momento storico?
Nella ricostruzione giudiziaria della “campagna stragista” di Cosa nostra dei primi anni ‘90, e quella delle cosiddette “trattative” fra Stato e mafia, una vicenda fra le più inquietanti e nebulose di tutta la storia repubblicana, la sentenza della Corte di Palermo costituisce senza dubbio una “svolta” (o un principio di svolta).
Al di là del merito, da verificare nei successivi gradi di giudizio, la sentenza (5252 pagine, frutto di 228 udienze) ha comportato la ricostruzione di vicende complesse e mai del tutto chiarite che hanno riguardato la storia repubblicana in un arco temporale ricompreso tra la metà degli anni ‘60 e i giorni nostri. Ad esempio, i tentativi di golpe e le stragi dei primi anni ‘70, il sequestro e l’uccisione di Aldo Moro e più in generale la stagione del terrorismo di natura brigatista, la Loggia massonica deviata della P2 e il ruolo di Licio Gelli, il sequestro Cirillo, le stragi di mafia sino alla cosiddetta “strage di viale Lazio” e, più in generale, la interminabile sequenza - senza pari nel mondo - di uomini delle istituzioni uccisi in Sicilia, i rapporti tra Cosa nostra siciliana e quella americana.
La sentenza di Palermo, come quelle precedenti delle corti di Firenze e di Caltanissetta, ha consentito di fare breccia su alcuni dei misteri più fitti della storia nazionale, aprendo importanti squarci di verità. Permangono tuttavia inquietanti zone d’ombra su alcune vicende chiave di quegli anni, che hanno segnato la transizione dalla “prima” alla “seconda” Repubblica. Restano ancora aperti, infatti, gli interrogativi sull’esistenza di “mandanti esterni” delle stragi, sulla identità e sul ruolo di altri protagonisti o semplici attori delle cosiddette “trattative”, e sul loro esito. Interrogativi che richiamano una questione di fondo: il livello di convergenza, stabilitosi in quegli anni, fra gli interessi mafiosi e quelli di ambienti a essi contigui, per lo più di derivazione massonica, e l’incidenza di tale “contiguità” sulle scelte strategiche della criminalità organizzata.

Si può paragonare il processo sulla trattativa Stato-mafia, per importanza e valore, ai due processi precedenti, quello Andreotti e quello Dell'Utri?
Rileggendo il processo Andreotti, ci si accorge che passato e presente si intrecciano in modo continuo, e permettono di comprendere alcuni aspetti essenziali della storia recente del nostro Paese. Dalla strage di Portella della Ginestra al golpe Borghese; dagli omicidi politico-mafiosi degli anni Settanta e Ottanta alla stagione del pool antimafia e del maxi-processo; dalla strategia stragista degli anni ‘92-‘93 con la cornice delle “trattative”, fino agli scenari attuali di Cosa nostra.
Infatti, al di là del verdetto “tecnico”, il processo ha fatto emergere un imponente ammontare di informazioni. Alcune di carattere generale, ad esempio sulla cosiddetta “criminalità dei potenti”, ovvero sulle modalità nascoste con cui alcuni segmenti della classe dirigente hanno gestito il potere nel corso di molti decenni. Altre informazioni riguardano più in particolare gli scambi occulti tra la mafia e certi settori del potere politico e del mondo imprenditoriale. Un vero e proprio sistema di “relazioni esterne” con la società e lo Stato realizzato da Cosa nostra mediante quel “poli-partito della mafia” trasversale evocato dal generale Dalla Chiesa, che probabilmente esiste ancora e s’è di nuovo inabissato.
Un caso che si può leggere in parallelo è quello del processo Dell’Utri. Nel senso che un protagonista assoluto della vita politica italiana (Andreotti) e un protagonista decisivo di quella imprenditoriale fattasi poi anche politica (Dell’Utri: che secondo le risultanze processuali di fatto ha agito come intermediario di Silvio Berlusconi) hanno avuto cordiali e proficui rapporti, non sporadici, con la criminalità mafiosa.

All'epoca collaboratori di giustizia importanti, come Francesco Marino Mannoia, riferirono dell'incontro tra Bontade ed Andreotti, ritenuto colpevole per il reato commesso fino al 1980 ma prescritto. Oggi ci sono intercettazioni, all'interno dell'ultima operazione di polizia a Palermo che confermano quell'incontro. Sono le parole di Tommaso Inzerillo, cugino di Totuccio, socio del principe di Villagrazia nel business internazionale della droga: "È arrivato un politico qua e lui gli ha detto: a Roma comandi tu, qui comandiamo noialtri”. Quanto fu difficile quel processo e perché ancora oggi c'è tanta mistificazione della realtà attorno ad esso?
Perché il processo costituiva un paradigma dell’intreccio tra Cosa nostra e i rappresentanti delle istituzioni a tutti i livelli; la dimostrazione dell’esistenza di quel “poli-partito della mafia” di cui parlava il generale Dalla Chiesa. La posta in gioco era enorme, non solo per le ricadute sui diretti protagonisti delle vicende processuali, ma soprattutto e più in generale per l’insieme della politica italiana, e i suoi interessi non sempre confessabili. Ne è derivata - con formidabile sostegno mediatico - una tempesta di vere e proprie ‘bufale’ (quelle che oggi vengono chiamate fake news), miranti a screditare il processo dalle fondamenta. Ma perché tanto “zelo” o imbarazzo? Perché l’obiettivo di quello “zelo” (o imbarazzo) e di quelle bufale non era solo il processo in sé. In filigrana si può facilmente percepire un problema - ben più rilevante - di democrazia. Negare o distorcere la verità, era (ed è) come svuotare di significato negativo i rapporti tra mafia e politica. Determinando di fatto una loro legittimazione: non solo per il passato, ma anche per il presente e il futuro.
La storia dei processi dimostra che siamo quasi sempre di fronte allo stesso copione. Quando sulla scia di delitti clamorosi si solleva la pubblica indignazione del popolo italiano, le segrete carte della mafia vengono scoperte, e cominciano a emergere verità inconfessabili.
Ben presto, però, cala progressivamente il silenzio sulla mafia, che cessa di essere un’emergenza; e si avvia invece un paradossale repertorio di insinuazioni, di polemiche strumentali, miranti a rappresentare come frutto di illeciti “teoremi” i più importanti processi di mafia. Anziché rafforzarsi, si dissolve gradualmente la coesione politico-istituzionale necessaria per elaborare un progetto politico di delegittimazione dei mafiosi.


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Palermo, 17 luglio 2019. Un momento della conferenza dal titolo ''Paolo Borsellino: strage di Stato. Sulle orme dei mandanti esterni'' tenutasi all'Università di Giurisprudenza © Our Voice


Lei come valuta questo "ritorno" in auge dei cosiddetti "scappati" all'interno delle logiche criminali della mafia palermitana? Addirittura sembra che vi siano stati rapporti diretti tra membri sopravvissuti alla guerra di mafia degli anni Ottanta (in particolare Michele Micalizzi che poi ha incontrato gli Inzerillo) e un rampollo di uno dei carnefici corleonesi (ovvero Giuseppe Biondino)...
La vicenda del ritorno degli “scappati” si iscrive secondo me in una fase di transizione, i cui esiti non sono prevedibili con certezza, sia per quanto riguarda il futuro assetto di vertice, sia l’indirizzo politico-criminale di Cosa nostra siciliana. Persistono all’interno dell’organizzazione alcuni fattori potenziali di instabilità e di crisi, legati a conflitti interni connessi al controllo di determinati territori, nonché a dissensi interni sulla configurazione e sugli equilibri degli assetti di vertice; con particolare riferimento alla esigenza di ricomporre situazioni di conflittualità interna tra taluni dei protagonisti della precedente politica stragista, e i fautori di tentativi di mediazione.
Dopo la morte di Riina è emersa una tendenza volta a superare la vecchia governance corleonese - contraddistinta dalla violenza e dalla concentrazione del potere all’interno di una ristretta oligarchia e rappresentata da anziani boss ergastolani in regime carcerario speciale - e per assicurare finalmente alla struttura criminale una guida definita, riconosciuta e pienamente operativa.
In questo contesto, l’organizzazione mafiosa si sta misurando già da tempo con il rientro a Palermo dei cosiddetti “scappati” o “americani”, ovvero i sopravvissuti perdenti della guerra di mafia vinta dai corleonesi. Molti di loro, tornati a Palermo, stanno recuperando l’antico potere anche rapportandosi con l’ala corleonese, nonché avvalendosi degli storici rapporti con i boss d’oltreoceano.

Lei è stato Procuratore capo a Messina e conosce i rapporti che vi sono in quella provincia, e non solo, tra Cosa nostra, 'Ndrangheta ed altri sistemi di potere. Come si può contrastare questo Sistema criminale che agisce sempre più in maniera integrata?
La risposta non è facile. Ma se è vero (come indicano i fatti accertati in tutti i più importanti processi di mafia) che Cosa nostra è divenuta una organizzazione di eccezionale pericolosità non soltanto per la sua potenza militare, ma anche per una rete di relazioni economiche, sociali e politiche che le hanno per moltissimi anni permesso di mantenere saldo il proprio potere sul territorio e sulla società; se questa analisi è corretta, è evidente che la pressione realizzata dalle forze dell’ordine e dalla magistratura sulla struttura militare dell’organizzazione non è sufficiente. I quadri militari non ci vuol nulla a sostituirli; purtroppo, fino a quando sussisteranno le note condizioni di sottosviluppo economico e sociale in determinate regioni d’Italia, il reclutamento da parte delle organizzazioni criminali sarà sempre assai facile. Quindi, colpire solo l’organizzazione militare significa tagliare continuamente l’erba di un prato seminato a gramigna. Si può cadere in questa illusione: tagliando l’erba periodicamente si ha l’impressione che il terreno sia pulito e ordinato; ma le radici che affondano nel terreno sono talmente profonde che, se si distoglie l’attenzione anche per un solo momento, la malerba ricresce più forte ed invadente di prima. Se quest’analisi è corretta, quindi, il nodo delle ‘relazioni esterne’ deve essere affrontato e risolto una volta per sempre. Dopo di che, anche se continueranno naturalmente ad esistere varie forme di crimine organizzato (qualsiasi società moderna e democratica paga, con le garanzie di cui deve essere munita, un certo tasso di criminalità), non esisteranno però più organizzazioni criminali come Cosa nostra capaci di condizionare la vita economica, politica e sociale di ampie parti del Paese.

Da qualche anno la vulgata comune è che Cosa nostra da anni non fa più stragi. Tuttavia tra il 2012 ed il 2015 vi sono state diversi episodi inquietanti, come l'invio di numerosi anonimi ma anche una vera e propria condanna a morte dal carcere, da parte di Riina, confermata, in base al racconto dei pentiti, anche da Matteo Messina Denaro tramite dei pizzini, per uccidere il magistrato Antonino Di Matteo, pm che ha interamente condotto il processo Borsellino ter, che offrì spunti importanti per la ricerca dei mandanti esterni delle stragi, e magistrato di punta del pool che ha condotto il processo Stato-mafia. E' notorio che Cosa nostra non dimentica. A quella condanna a morte si possono aggiungere anche le pesanti intimidazioni nei confronti di magistrati come il Procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato e il procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo. Qual è la sua lettura su queste inquietanti minacce? Potrebbe esservi un nuovo uso della violenza estrema con un ritorno alle stragi?
Come dicevo, l’organizzazione palermitana continua a vivere una fase di transizione e di rimodulazione, durante la quale le componenti più autorevoli sembrano orientate a conferire un nuovo assetto e nuovi capi, sforzandosi di perseguire la realizzazione di una struttura verticistica e unitaria.
D’altro canto, il tentativo di ricostruzione della Cupola è finora fallito, e perdurano, quindi, gli elementi di criticità che la ricostituzione dell’organismo di vertice avrebbe dovuto consentire di superare. Di conseguenza, non è possibile escludere in modo assoluto che le difficoltà dell’organizzazione e le complesse dinamiche tra le componenti che ne sono parte possano sfociare in forti dissidi, anche con atti di violenza. Tale possibilità è da considerare anche in ragione del fatto che le conflittualità interne potrebbero essere ulteriormente esasperate dai nuovi rapporti di collaborazione di affiliati, particolarmente autorevoli, con la giustizia.


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L'ex presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano © Imagoeconomica


Affrontando un altro tema delicato sembra che il ministro della Giustizia Bonafede sia ormai pronto a promuovere una nuova riforma della Giustizia. Lo scorso 19 luglio in una lettera pubblica il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Giuseppe Lombardo ha scritto chiaramente che la lotta alle mafie non è una priorità dello Stato. Lei è d'accordo?
Dovrebbe esserlo, soprattutto oggi che tutti hanno acquisito consapevolezza del fatto che la mafia è rientrata in una fase di mimetizzazione e di integrazione con articolazioni del potere legale, economico e politico che condiziona l’intero Paese. Spesso si ripete che occorrerebbe una risposta politica forte. Ma non è quel che accade. Malgrado alcuni segnali positivi, l’attuale politica antimafia è inadeguata, così come la rappresentazione mediatica del fenomeno, oscillante tra il silenzio informativo forzato e il colore noir sulla stagione di sangue napoletana, o il folclore sulla latitanza di Matteo Messina Denaro. E si registrano affermazioni di esponenti politici stando alle quali - nonostante le intenzioni dichiarate - sembra riemergere un’istintiva forma di insofferenza verso il controllo di legalità che, purtroppo, fa parte del background di gran parte della classe dirigente italiana. Un’insofferenza abbastanza diffusa anche nella società, nella quale alla fine produce consensi invece che farne perdere.
La questione, infine, è complicata dalla presenza di interessi forti, di tipo economico ma anche criminale; e quindi dal tentativo di bloccare il processo di rinnovamento e di far ritornare indietro l’orologio della storia. Non sembra del tutto scongiurata la tentazione di una parte della classe dirigente di sfruttare ancora - per convenienza o per rassegnata accettazione - il tradizionale modello della “delega”, ovvero del “patto di scambio” con gruppi e potentati che vengono scelti come “partners” nell’opera di sfruttamento clientelare degli apparati pubblici. Né sembra scongiurata del tutto la tendenza a ritirare la delega, le credenziali ai rappresentanti delle Istituzioni che lottano contro la mafia.

Un altro segmento della riforma riguarderà anche le regole che ruotano attorno al Consiglio superiore della magistratura? Qual è la sua idea sul punto e sulla crisi che sta attraversando l'organo di autogoverno della magistratura?
Sul recente scandalo del mercato delle nomine al CSM può sorprendersi solo chi ha scarsa (o nessuna) memoria.
Basta ricordare quello che - già il 5 maggio 2016 - in una intervista al “Foglio” ha detto uno dei più autorevoli componenti del CSM, Piergiorgio Morosini: “Qui è tutto politica. La politica entra da tutte le parti: le correnti, i membri laici… dall’esterno, da tutte le parti… Persone sponsorizzate da politici, liberi professionisti, imprenditori. Mi tocca assistere alla scelta di candidati che per competenze e curriculum non meriterebbero quel posto…”.
Non c’è dubbio che occorre una riforma radicale, sia sul metodo di selezione dei componenti del CSM, sia sulla cesura dei rapporti tra magistratura e politica.

Lei nel 2014 era Primo in graduatoria per la Procura di Palermo. Lo stesso nel 2016 quando presentò la sua candidatura come procuratore generale di Firenze. Fu anche lei vittima di un sistema?
Di questo “mercato delle nomine”, e degli interventi “a gamba tesa” della politica ho avuto anch’io personale esperienza, quando nel 2014, sebbene fossi il primo in graduatoria e già designato a larga maggioranza dalla commissione incarichi direttivi del CSM all’incarico di procuratore della repubblica di Palermo, la mia imminente e quasi certa nomina venne bloccata dal Presidente Giorgio Napolitano, con una lettera firmata dal segretario generale della presidenza della Repubblica che - in attesa di un mutamento negli equilibri del CSM, e cambiando le regole mentre il concorso pubblico era in pieno svolgimento - adduceva la necessità di rispettare, anziché un ordine di precedenza basato sulla rilevanza e delicatezza strategica dell’ufficio direttivo da ricoprire, un inedito “ordine cronologico nelle procedure di nomina” (criterio che non era mai stato applicato prima, e che ovviamente non lo è mai stato neanche dopo). Il CSM, che avrebbe dovuto puntare i piedi in difesa della sua autonomia, non fece nulla (a parte alcuni consiglieri, che contestarono invano il diktat presidenziale, parlando di un “CSM sotto tutela” e di un “Consiglio dimezzato”).
E ancora nel 2016, quando per la nomina a procuratore generale di Firenze, sebbene ancora una volta fossi primo in graduatoria, la mia candidatura non venne presa in considerazione, suscitando una accorata reazione del presidente della Cassazione Giovanni Canzio, il quale inutilmente ricordò a un CSM totalmente e inguaribilmente “correntizio” che “Lo Forte ha fatto la storia dell’antimafia in Sicilia, quella vera. Credo che dobbiamo interrogarci su che cosa stiamo facendo”.

Foto di copertina © Our Voice

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