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di Lorenzo Baldo
“Questo palcoscenico è Palermo, gli attori sul banco degli imputati sono capimafia e uomini delle istituzioni. Questo è il palcoscenico di una tragedia, un palcoscenico di intrighi, misteri, morte. Ma anche un palcoscenico di vita, passione, lotta. Palcoscenico di una storia straordinaria, comunque, in cui il bene e il male si confrontano al massimo livello”. Con le maestose immagini del Teatro Massimo di Palermo iniziava il film “A very sicilian justice” che vedeva protagonista il pm Nino Di Matteo e il processo sulla trattativa Stato-mafia. Nel giorno dell’anniversario della strage di via D’Amelio quelle parole volano alte sopra questa città dove realmente il bene e il male si confrontano al massimo livello. E si confrontano in maniera sempre più subdola, con il bianco e il nero spesso confusi tra loro. Ma quel palcoscenico è sempre lì: cambiano gli attori, le maschere, le comparse, ma il copione deve essere recitato all’infinito. Un copione ibrido, che a volte lascia basiti, disorientati, svuotati, disillusi: chi è il nemico e perché arriva il fuoco amico? Mera retorica, si dirà. Ma è proprio perché non ci si vuole arrendere alla tesi gattopardiana del “tutto cambi affinché nulla cambi” è necessario continuare a fare certe domande. Che 27 anni dopo quel 19 luglio 1992 bruciano ancora di più. Bruciano, come le parole dell’unico superstite di via D’Amelio, l’ex agente di scorta Antonino Vullo: “Una fiammata mi investe, l’auto viene sollevata da terra e rovesciata. Apro lo sportello e mi tiro fuori prima che la blindata esploda. Sento scoppi, esplosioni. Vedo fumo e morte. Prendo la pistola, istintivamente, e a un certo punto vedo sbucare dalla nebbia un poliziotto, uno delle volanti, il primo ad arrivare. Poi su di me scende il buio”. Un buio opprimente, letale, che avvolge con i suoi tentacoli i misteri della strage di via D’Amelio: la sparizione dell’agenda rossa di Paolo Borsellino in primis. Uomini di Stato l’hanno prelevata, rubandola dalla valigetta del magistrato che giaceva a terra senza più braccia e gambe. Quegli stessi uomini di Stato che erano presenti mentre la Fiat 126 destinata alla strage veniva imbottita di esplosivo. Amarezza, rabbia e dolore attraversano l’anima mentre si ascolta la testimonianza di un super testimone di quel giorno, l’ex giudice Giuseppe Ayala. Non ricorda, Ayala, tergiversa, cambia versione un’altra volta, afferma che verrà giudicato da Dio. Ma qui siamo sulla terra e pretendiamo una giustizia terrena che inchiodi alle loro responsabilità i mandanti esterni a Cosa Nostra che hanno pianificato l’accelerazione della strage del 19 luglio. Ed è proprio quella spasmodica ricerca di giustizia che ha segnato la vita e la morte di donne straordinarie come Rita Borsellino e Augusta Schiera Agostino ad essere violentata costantemente da chi, giurando di dire tutta la verità, la infrange con i suoi silenzi colpevoli. Il pensiero corre al colonnello dei Carabinieri Giovanni Arcangioli, accusato e poi prosciolto dall’accusa di furto aggravato dell’agenda rossa di Paolo Borsellino e alla sua testimonianza a dir poco vergognosa. Ma fino a che punto per lo Stato è possibile vergognarsi per il rinvio a giudizio dei tre componenti del pool “Falcone e Borsellino” Fabrizio Mattei, Mario Bo e Michele Ribaudo per il depistaggio nella strage di via D’Amelio? Un rinvio a giudizio che stride non poco con la precedente archiviazione dell’indagine sul depistaggio nei confronti dello stesso Bo e dei suoi ex colleghi Vincenzo Ricciardi e Salvatore La Barbera. I principali protagonisti di quello che nella sentenza del Borsellino quater è stato definito “uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana” sono morti. Nulla potranno più dire l’ex capo della Mobile di Palermo Arnaldo La Barbera, per un periodo al soldo dei Servizi col nome in codice di “Rutilius”, né tanto meno l’ex capo della Polizia Vincenzo Parisi; così come l’ex presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro le cui tracce di “mendacio” in merito al patto sporco tra Stato e Cosa Nostra sono state cristallizzate nel processo sulla trattativa. Una sentenza a dir poco storica, nella quale - nero su bianco - è stato evidenziato come la trattativa tra Stato e mafia abbia determinato inevitabilmente “l’improvvisa accelerazione” della strage di via D’Amelio.
Nel frattempo sul palcoscenico di questo disgraziato Paese gli attori continuano imperterriti a recitare la propria parte. Brucia sempre più forte il fuoco amico nei confronti di chi si ostina a cercare la verità, tanti Giuda tradiscono il giuramento che hanno fatto nei confronti della giustizia, tanti altri, tra cui familiari stessi di vittime di mafia, vengono strumentalizzati - più o meno consapevolmente - in questo gioco al massacro dove la prima vittima è la ricerca della verità. Lo “tsunami” che ha colpito recentemente il Csm e gli attacchi scomposti verso il pm Di Matteo, sono solo la punta dell’iceberg. Dal canto loro i burattinai mescolano le carte per allontanare la verità, le confondono davanti agli occhi dei tanti cittadini ignari dei giochi sotterranei dietro le quinte.
Ma se è vero che nei periodi più bui l’essere umano è capace di tirare fuori le risorse che nemmeno pensava di avere - risorse che gli salveranno la vita e lo renderanno più forte - non c’è molto tempo da perdere in questa ricerca della verità. La sabbia nella clessidra scende veloce, come il giorno in cui vennero portate nell’atrio del Palazzo di giustizia di Palermo le bare di Giovanni Falcone e Francesca Morvillo. Quel giorno Paolo Borsellino era lì assieme a tanti suoi colleghi. “Ragazzi - disse prostrato - vi parlo come un padre, come un fratello maggiore, ho il dovere di dirvi che non possiamo farci illusioni, se restiamo, il futuro di alcuni di noi sarà quello... Io resto, e resto solo per loro”, con una mano indicò la folla, per poi aggiungere: “Non posso lasciarli soli”. Quell’atto di amore - incondizionato e assoluto - resta la risposta più esaustiva per chi in questa pretesa di verità avrà il coraggio di andare oltre i propri limiti, oltre se stesso.

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