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di AMDuemila
Il procuratore aggiunto di Reggio Calabria scrive una lettera a La Repubblica. "Bisogna chiedere scusa a Borsellino per le troppe volte in cui sono stati distorti i suoi insegnamenti"

"Non è una morte come le altre quella di Paolo Borsellino, per le riflessioni che impone e che vanno ben oltre quello che accadde quel terribile 19 luglio di tanti anni fa. Aveva capito Paolo che il calo di tensione nella lotta alla mafia da lui denunciato non era fisiologico. Non era una bonaria sottovalutazione del fenomeno criminale. Era ben altro, come molti anni dopo si è riusciti a comprendere e dimostrare.
Certamente oggi ci vorrebbe uno sforzo collettivo per spiegare a Paolo le ragioni per le quali non siamo riusciti ancora, nonostante l’impegno della magistratura, a convincere gli organi centrali dello Stato che bisogna fare scelte politiche nette, destinate ad avviare una seria e duratura azione di contrasto al crimine organizzato, che parta dalla modernizzazione di procedure giudiziarie antiquate, che impediscono la immediata comprensione di fenomeni delittuosi complessi". Con queste parole inizia la lettera di Giuseppe Lombardo, pubblicata oggi sul quotidiano La Repubblica, in occasione del 27°anniversario della strage di via d'Amelio. Il procuratore aggiunto di Reggio Calabria questo pomeriggio sarà tra i relatori del convegno organizzato dalle Agende Rosse in via d'Amelio “Verità di Stato, Verità di tutti?", a cui parteciperanno anche Sebastiano Ardita, consigliere del Csm, il Procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato e l'avvocato Fabio Repici, moderati da Giuseppe Lo Bianco, e probabilmente avrà anche modo di approfondire il concetto.
Lombardo spiga come "Alla rapidità di movimento e di pensiero della mafia del terzo millennio, dobbiamo contrapporre strumenti normativi evoluti, in grado di consentire la individuazione non soltanto dei soldati ma soprattutto delle nuove leve di quelle 'menti raffinatissime' che hanno voluto la sua morte". Il magistrato non è d'accordo con chi dice che il metodo di lavoro di Falcone e Borsellino sarebbe rimasto sempre invariato. "Bisognerebbe chiedere scusa a Paolo per le troppe volte in cui sono stati distorti i suoi insegnamenti - scrive il pm reggino - e per la profonda ipocrisia di chi, nel 2019, sostiene che il suo metodo di lavoro sarebbe rimasto immutato rispetto a quello del 1992. Paolo oggi avrebbe dato lezioni di modernità, consapevole che la mafia, vero nemico del nostro Paese, non va mai banalizzata. Non avrebbe mai sminuito la reale forza di una organizzazione viva e vitale, consapevole che la sottovalutazione del fenomeno è il modo peggiore di avviare una seria strategia di contrasto". Quindi evidenzia le profonde lacune nella lotta alla mafia da parte dello Stato italiano: "A chi mi chiede come è giusto ricordare il sacrificio di Paolo Borsellino, che per servire lo Stato è morto come Giovanni Falcone, tanti altri magistrati ed appartenenti alle forze dell’ordine, rispondo che la strada da seguire parte dal coraggio di affermare che la lotta alla mafia non è una priorità dello Stato italiano. Non lo è più, nonostante la consapevolezza che la criminalità organizzata metta a rischio la stessa tenuta democratica della nostra nazione, nonostante sia evidente che la mafia sia il più evoluto strumento di doping finanziario del sistema economico mondiale, per la sua capacità di arricchire ristrette oligarchie criminali a danno di ampie fasce di economia legale. La lotta alla mafia non è una priorità semplicemente perché richiede una volontà politica che superi gli sbarramenti generati dalla mancanza di adeguate coperture finanziarie, argomento strumentalmente utilizzato per giustificare le drammatiche vacanze di organico della magistratura, del personale amministrativo e delle forze di polizia.
Mi chiedo, se questo è vero, che senso abbia gioire dei risultati giudiziari raggiunti, visto che siamo comunque costretti a giocare una partita che non possiamo vincere. Che senso ha sbandierare arresti e condanne come fossero vittorie. Sono risultati importanti generati dal lavoro quotidiano, per i quali non vogliamo applausi. È il nostro lavoro ed il nostro lavoro, tra mille difficoltà, lo sappiamo fare. Punto e basta.
Perché sia chiaro che vincere la guerra contro la mafia è ben altra cosa, provoca ben altri effetti sul benessere collettivo ed è l’unico risultato in grado di onorare fino in fondo la memoria di Paolo, di Giovanni e di tutti coloro i quali hanno vissuto da uomini dello Stato, pur quando sono rimasti soli a combattere contro quel mostro gigantesco che li ha uccisi". Infine Lombardo avverte la necessità che "non si creino i presupposti per generare altre solitudini, perché quando si è soli si muore. Nessuno ha bisogno di cercare conferme ulteriori. È importate ricordare che Paolo non è morto invano: il 19 luglio 1992 è il giorno in cui tutto ha avuto inizio, non quello in cui tutto è finito".

Foto © Imagoeconomica

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