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di Karim El Sadi
"Era amico di Nitto Santapaola e un aggancio importante per Cosa Nostra catanese"

“C’era bisogno di fare un’attentato non vero per far passare il signor Ciancio come vittima di Cosa Nostra, senza assolutamente creare danni a persone. Questo per far sì che lui passasse come vittima e non come carnefice, in quanto il signor Ciancio si sentiva controllato e aveva saputo che c’era un’indagine nei suoi confronti”. A rivelare questi scottanti particolari sull’ex editore del quotidiano La Sicilia Mario Ciancio Sanfilippo è Francesco Squillaci, ex membro di Cosa Nostra catanese della famiglia di Santapaola dal 1989, oggi collaboratore di giustizia. Squillaci, ascoltato dal pm Agata Santonocito durante l’udienza del processo ai danni dell’imprenditore Ciancio Sanfilippo accusato di concorso esterno con la mafia, ha raccontato dettagliatamente gli aspetti di quel progetto posto in essere il 17 agosto del 1990. Il collaboratore ha raccontato di averne sentito parlare, per la prima volta, in compagnia di suo padre e uomo d’onore Pippo “Martiddina” e al braccio destro del capo mafia catanese Benedetto Santapaola, Francesco Mangion. Fu quest’ultimo a comunicare agli Squillaci “l’idea” di Benedetto Santapaola per creare, tramite questo finto attentato, un “allarme sociale nei confronti del dottor Ciancio”. Il motivo l’ha spiegato sempre in quell’occasione il fedelissimo di Nitto Santapaola, Mangion, ai due boss “Martiddina”. “Il dottor Ciancio si sentiva col fiato sul collo dall’autorità giudiziaria e disse che 'si voleva ricreare la verginità' non voleva passare per carnefice ma per vittima”. Sempre Mangion come ha raccontato Squillaci ai giudici martedì pomeriggio, “parlava di Ciancio come persona potente della Sicilia molto vicina a Benedetto Santapaola e un amico nostro che aveva agganci importanti politici-industriali con conoscenze all’interno del tribunale di Catania”. Quindi, ha dedotto Squillaci, “Ciancio era un aggancio importante per Cosa Nostra catanese soprattutto per Benedetto Santapaola.

L’attentato fantoccio. Prima, durante e dopo
Francesco Squillaci, all’epoca appena vent’enne, e suo padre “accolta la richiesta”, si misero subito all’opera fabbricando, anzitutto, il “candelotto”. Un “lavoro certosino” di cui si è occupato Squillaci senior, il quale testò più volte l’ordigno per non creare grossi danni a cose e persone. Dopodiché vennero fatti dei sopralluoghi attorno alla villa di Ciancio in Via pietra dell’Ova 51 a Catania, luogo designato dai mafiosi per compiere il misfatto, fin quando, “passati pochi giorni, ci siamo organizzati con Francesco Maccarone, Carmelo Nicolosi, Aldo Giuseppe Raffa e Coppolino io, mio padre e Giuseppe Mangion”. “Chi ha lanciato la dinamite eravamo io e Carmelo Nicolosi - ha rammentato il pentito - siamo arrivati con tre macchine per l’ora di pranzo, eravamo dislocati in punti, diversi abbiamo acceso la miccia e abbiamo lanciato l’esplosivo al di là del muro di cinta”. “Poi - ha proseguito il racconto Squillaci - abbiamo aspettato l’esplosione e mio padre voleva sentire le sirene perchè quando facevamo attentati estorsivi si aspettavano le sirene sempre”. “Era una cosa che interessava personalmente Nitto Santapaola - ha concluso l’ex boss - e a fatto compiuto fu mio padre a riferirglielo in mia presenza”.
Nelle prime ore del pomeriggio arrivò presso la villa di Ciancio Sanfilippo Domenico Percolla, in quell’anno dirigente della Digos, il quale, anche lui sentito in aula, ha appurato che l’attentato, oltre a non essere stato l’unico ai danni dell’imprenditore Ciancio, non era nemmeno di grossa portata: “l’esplosione non fu particolarmente potente”. Di fatti generò un “cratere” di soli "20 centimetri di larghezza e 14 centimetri di profondità". Il terreno sollevato dalla detonazione dell’ordigno venne prelevato e campionato dalla scientifica di Catania, la quale consegnò il plico contenente 230 grammi di materiale con residui di esplosivo ai colleghi di Roma. Questi ultimi, nella persona Paolo Egidi, altro teste ricevuto in aula martedì, ha negato, dopo una serie di accertamenti, che il campione contenesse tracce di esplosivo. “Noi riusciamo a verificare anche i microgrammi di materiale esplosivo - ha detto Egidi che nel 1990 lavorava presso il laboratorio esplosivi della polizia scientifica capitolina - ma in quel caso non c’era”. Fatto al quanto misterioso che potrebbe ipoteticamente rimontare a un “cattivo o superficiale campionamento”.

Gli affari per il centro commerciale a Misterbianco
Conclusasi la prima parte dell’udienza i giudici, questa volta per voce del pm Antonino Fanara, hanno esaminato altri soggetti che avrebbero avuto a che fare con Mario Ciancio Sanfilippo. In particolare questi sono stati ascoltati nell’ambito del centro commerciale 'Mito' che sarebbe dovuto nascere nei terreni appartenenti all’imputato in contrada Cardinale a Misterbianco (Catania). Il periodo in esame è il 1999-2000. Il primo a parlare è l’artigiano edile Nicolò Ripa, arrestato nell’operazione “Gioco d’Azzardo” per concorso esterno in associazione mafiosa, venne poi liberato e il procedimento archiviato. Questi ha raccontato di un affare in combutta con il costruttore messinese Antonello Giostra, anche lui all’epoca con la fedina penale non pulita (processato per riciclaggio di somme di denaro provenienti dalla mafia e condannato per bancarotta fraudolenta). Il progetto riguardava un terreno che i due avevano individuato nel Catanese tramite un mediatore del posto, Giuseppe Fiume, anche lui è stato ascoltato subito dopo Ripa in aula. “Fiume ci mostra un terreno che ci interessa e ci disse che era di Ciancio - ha spiegato ai giudici Ripa - così fissammo un appuntamento con Ciancio. Andammo a parlare con lui insieme a Giostra presso la redazione del giornale La Sicilia. Gli prospettiamo l’operazione, la possibilità di fare un centro commerciale ma lui ci disse che era interessato solo alla vendita del terreno. Dopo svariate volte che ci siamo visti abbiamo raggiunto un accordo sul prezzo e abbiamo fatto il preliminare in una società di Giostra inattiva”. Per le operazioni immobiliarie “non ci siamo preoccupati della criminalità organizzata”, ha detto l'artigiano. Erano più importanti i contatti con i politici, che non sarebbero poi mancati. Tra questi da sottolineare è quello di Raffaele Lombardo, all'epoca presidente della Regione, al quale i due soci in affari avevano chiesto un incontro. Lombardo però, a detta di Ripa, "non ci ha ricevuti direttamente ma tramite un suo collaboratore, Lombardo nel frattempo sentiva tutto perchè mentre discutevamo col collaboratore, Lombardo faceva delle telefonate e ci dava le risposte in tempo reale. Si mise quindi a disposizione per quello di cui avevamo bisogno a livello di forza politica, a lui interessava questa operazione dal punto di vista sociale a Misterbianco". L’imprenditore messinese ha inoltre precisato che “gli appuntamenti con i politici li fissavo io. Ciancio non c’entrava”. Ma l'operazione non andò in porto, come ha successivamente affermato l'ultimo teste a processo, lo stesso uomo citato da Nicolò Ripa nel corso del dibattimento, l'ex impreditore immobiliario, Giuseppe Fiume, oggi in pensione. Secondo Fiume il comune di Misterbianco fornì le autorizzazioni al progetto concorrente, quello dei terreni in Contrada Tenutella (attuale Centro Sicilia) che si trovano proprio di fronte a quelli dell'editore catanese. Precisamente dall’altra parte della Tangenziale di Catania. La prossima udienza si terrà tra 3 mesi, il 21 Maggio, in quella data i giudici sentiranno la deposizione di un teste chiave, Antonello Giostra.

Foto © Imagoeconomica