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relatoridi Aaron Pettinari e Karim El Sadi
Nino Di Matteo e Don Ciotti partecipano alla presentazione del libro “In nome del figlio

Ai giovani che mi chiedono cosa possono fare io rispondo sempre che sono le scelte che contano sia da ragazzi che da adulti… voi giovani avete la possibilità di cambiare questa società e che si possano avere verità e giustizia, dovete scegliere responsabilmente, col cuore, dopo aver studiato, da che parte stare”. Con queste parole Saveria Antiochia, madre di Roberto, l’agente di polizia ucciso da Cosa nostra mentre faceva "scudo" con il proprio corpo a Ninni Cassarà, si rivolgeva agli studenti dell’università Bocconi di Milano nel lontano 1994. in nome del figlio libroIeri le battaglie di questa donna combattente sono state ricordate durante la presentazione del libro “In nome del figlio - Saveria Antiochia, una madre contro la mafia” tenutasi ieri pomeriggio presso la Sala Zuccari di Palazzo Giustiniani del Senato della Repubblica. Un incontro, coordinato dal senatore Franco Mirabelli, a cui hanno partecipato il sostituto procuratore nazionale antimafia Antonino Di Matteo, il presidente di Libera, Don Luigi Ciotti, Alessandro Antiochia, figlio di Saveria e fratello di Roberto, l’autrice del libro Jole Garuti (che dirige anche il Centro studi di “Saveria Antiochia Osservatorio Antimafia”) e l'attrice Loredana Martinez che ha effettuato alcune letture.
E' proprio dal giorno dell'attentato, il 6 agosto 1985, che ha avuto inizio la battaglia della signora Antiochia. Il sacrificio del figlio, tornato a Palermo proprio per non lasciare solo il commissario Cassarà dopo l'omicidio, pochi giorni prima, del commissario della squadra mobile di Palermo Beppe Montana, per anni l'ha spinta a combattere quotidianamente non solo per se stessa ma anche per tutti gli altri familiari vittime di mafia. Proprio Alessandro Antiochia ha voluto ricordare la battaglia "affinché nessuno debba più soffrire come abbiamo sofferto noi”. Una donna coraggiosa capace, appena pochi giorni dopo la morte del figlio, di scrivere una lettera all’allora ministro degli Interni Oscar Luigi Scalfaro dal titolo eloquente: “Li avete abbandonati”. Una missiva in cui la donna esprimeva tutta la rabbia e il rancore nei confronti delle istituzioni che non fecero abbastanza per proteggere il commissario Cassarà e la sua scorta, quindi anche suo figlio, i quali si trovavano costretti a lavorare in condizioni precarie nell’alone dell’isolamento.

di matteo ciotti c imagoeconomica

Nino Di Matteo e don Luigi Ciotti © Imagoeconomica


Isolamento che ha contraddistinto la vita di tanti martiri, vittime della furia mafiosa ma non solo. E' proprio il sostituto Nino Di Matteo ad aver evidenziato le connessioni tra pezzi di Stato, della politica, dell'imprenditoria e la mafia. Connessioni che, purtroppo, si sono manifestate anche con l'esecuzione di delitti eccellenti. In particolare Di Matteo ha ricostruito il contesto in cui si consumò il delitto Cassarà-Antiochia: "Cassarà venne sovraesposto da alti funzionari della polizia di stato come Ignazio D’Antone e Bruno Contrada in quel momento collusi con Cosa Nostra. Funzionari che anche dopo la morte di Cassarà furono destinatari di provvedimenti che ne gratificarono la progressione in carriera fino ai ruoli apicali dei servizi di sicurezza. Nel 1983 saltò in aria il consigliere istruttore Chinicci e si celebrò il primo processo a Caltanissetta. Ninni Cassarà andò a raccontare al processo che il consigliere Chinnici, pochi giorni prima di essere ucciso, gli aveva detto che dovevano concentrarsi gli sforzi investigativi verso i cugini Nino e Ignazio Salvo, allora plenipotenziari dell’ala andreottiana della Dc in Sicilia, in quanto era intenzione di Chinnici arrestarli al più presto. Cassarà disse anche di aver sentito quelle parole e che quando Chinnici manifestò questa sua intenzione si trovava in compagnia di altri soggetti: magistrati e funzionari di polizia che invece smentirono Cassarà. Cassarà morì, gli altri fecero una brillante carriera”. “Sono convinto che una vicenda come quella dell’omicidio Cassarà - ha aggiunto il giudice Di Matteo - è solo una delle tante che smentiscono la favoletta propinata in tanti anni a proposito dei delitti eccellenti, quella rappresentazione semplice dei caduti in una guerra tra i buoni, lo Stato, e i cattivi, la mafia”.
Parlando del poliziotto Antiochia il pm ha affermato che "la sua morte, legata al gesto volontario di venire a proteggere il suo superiore e amico in evidente pericolo di vita, è la commovente sublimazione di un valore che va oltre l’adempimento del dovere. E’ il valore dell’entusiasmo, dell’altruismo, dell’amore di quei sentimenti senza i quali la lotta alla mafia non potrà mai diventare lotta di popolo per la libertà e la democrazia e se ciò non succede non vedremo mai, probabilmente, la fine di questo fenomeno opprimente per la democrazia del nostro Paese”. Un riscatto che passa necessariamente dalla memoria che non deve essere sterile ma fatta di azioni concrete che vanno oltre alla semplice commemorazione. "Questo Paese - ha aggiunto Di Matteo - sta perdendo la memoria. Non sono sufficienti i ricordi e le commemorazioni in occasione degli anniversari delle stragi e delitti, non sono sufficienti le navi della legalità, i bambini e i ragazzi che invadono le strade di Palermo ogni 23 maggio e in misura minore ogni 19 luglio. Ci vuole molto di più. Si ricordano le vittime ma si evita di parlare del contesto in cui maturarono i delitti quando questo contesto evidenzia complicità e collusioni istituzionali, si evita di ricordare cosa emerge dalle indagini e perfino dai processi passati in giudicato. Cala il muro di gomma del silenzio. Queste vittime sono state lasciate sole e sovraesposte da quello stesso stato che le vittime innocenti si onoravano di servire”.




* Per problemi tecnici non siamo riusciti a recuperare la parte iniziale della presentazione.


Le sentenze dimenticate
Di Matteo ha anche evidenziato come "troppe volte emerge dalle sentenze e dagli atti giudiziari che la mano dei cattivi dei mafiosi è stata idealmente armata da chi doveva stare dalla parte dei buoni e invece per scelta, per convenienza, per paura colludeva con la mafia". Questo è accaduto nel corso della storia e vi sono sentenze chiare come quella sul sette volte Presidente del consiglio Giulio Andreotti e sull'ex senatore Marcello Dell'Utri che spesso vengono dimenticate da quelle istituzioni che invece dovrebbero tenerle sempre a mente. "Su Andreotti - ha ricordato il magistrato - è stato accertato con una sentenza definitiva che ha avuto rapporti significativi e incontri personali e diretti con alcuni capi di Cosa Nostra palermitana poco prima e poco dopo dell’omicidio di Piersanti Mattarella. Prima perché i mafiosi si lamentavano con Andreotti dei danni che l’azione moralizzatrice di Mattarella stava recando loro e dopo a fronte delle lamentele di Andreotti a fronte dell’omicidio che era avvenuto per ricordare che in Sicilia comandavano loro e che anche la politica collusa doveva piegarsi a loro”. “Eppure - ha fatto notare Di Matteo - da cittadino leggo che in questi giorni si susseguono le cerimonie dell’uomo e dell’attività politica del senatore Andreotti che però dovrebbero avere almeno l’onestà intellettuale di ricordare questi passaggi che non sono passaggi di un teorema accusatorio della procura di Palermo, ma sono passaggi di una sentenza definitiva". "Anche le sentenze definitive possono essere criticate e non condivise, ma qui si ignorano - ha proseguito - questo è uno dei drammi del nostro Paese così come si ignora che c’è una sentenza definitiva, quella che ha condannato il senatore Dell’Utri, uno dei fondatori di Forza Italia, si afferma che è stato il mediatore di un accordo tra alcuni capi delle famiglie storiche di Palermo e l’allora imprenditore Silvio Berlusconi, è stato rispettato da entrambe le parti nei suoi contenuti per un periodo, dice la sentenza che è stato dal 1974 al 1992. Da queste vicende nessuno fa scattare delle responsabilità di tipo politico, ancora oggi quell’imprenditore, poi divenuto politico gioca ruoli importanti nella scena politica nazionale".
Nel corso del suo intervento Di Matteo ha anche ricordato le delegittimazioni e gli attacchi subiti dal pool di Palermo che ha indagato sulla trattativa Stato-mafia. Un processo che ha portato a pesanti condanne di mafiosi, uomini delle istituzioni e politici. Anche in questo caso il silenzio è stata la via scelta dal potere. "Il silenzio è calato da tutte le parti perché non è comodo ricordare una sentenza che afferma e spiega che quella trattativa non evitò conseguenze tragiche ulteriori ma provocò altro sangue - ha detto ancora il sostituto procuratore nazionale antimafia - non è comodo ricordare quello che ricorda la sentenza sui silenzi, sulle reticenze di uomini dello stato che avevano appreso certe cose in quel momento delle stragi e non le avevano mai riferite o le avevano riferite soltanto 20 anni dopo quando le nostre indagini prendendo spunto dalle dichiarazioni dei pentiti di mafia hanno avuto finalmente uno sviluppo”.

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Jole Garuti e Alessandro Antiochia © Imagoeconomica


Don Ciotti e Garuti: “Saveria Antiochia donna di grande tenacia
Successivamente a prendere la parola è stato don Luigi Ciotti, autore della prefazione del libro, che è tornato a parlare della figura di Saveria Antiochia: “Quando ti uccidono un figlio sparano anche su di te. Questo libro ci consegna il volto di una donna stupenda generosa curiosa e che non la mandava a dire a nessuno. Saveria era una mamma di grande lucidità che non si fermava di fronte agli ostacoli. Lei è stata una cittadina consapevole con il suo impegno politico”. Il presidente dell’associazione Libera ha poi incanalato il discorso verso la percezione dei cittadini di fronte al problema mafia. “Abbiamo toccato con mano che la percezione delle mafie nel nostro paese si è formata 26 anni fa nelle stragi di Capaci e via d’Amelio e nonostante l’impegno e i sacrifici oggi c’è una percezione che ci inquieta, che ci pone delle domande in più. Stiamo andando verso la normalizzazione, non ci siamo” ha detto confrontandosi con il pubblico presente nella sala di Palazzo Giustiniani. A seguire ha preso parola Jola Garuti, amica di Saveria ed autrice del libro: “Ho deciso di scrivere questo libro perché temevo che Saveria venisse dimenticata. Quello che mi ha stupito, conoscendo questa grande donna, è che dopo sei mesi dalla morte del figlio ne parlava senza emozionarsi, con gli occhi asciutti, era una cosa anomala. Lei voleva far conoscere Roberto e per fare questo non poteva piangere senza timori ed esitazioni”. L'autrice ha anche raccontato alcuni aneddoti che gli erano stati riferiti dall'amica. "Quando parlava del figlio lo descriveva come un poliziotto che compiva il suo dovere ma che non era un repressivo. Gli dispiaceva quando doveva mettere le mani a dei ragazzi e a loro cercava di spiegare dove avessero sbagliato, cercando di correggerli". Infine ha concluso ribadendo l'importanza dell'impegno della politica: “Saveria riteneva fondamentale che la politica cambiasse, tutto il popolo italiano doveva essere unito. Fare educazione alla legalità democratica. Se Saveria Antiochia fosse con noi sicuramente si batterebbe per questo”.
Durante la serata gli organizzatori hanno proiettato un intervento della signora Antiochia andato in onda nel 1993 nel corso della trasmissione “Il Rosso e il Nero” condotta da Michele Santoro nella quale la donna ha dato prova di grande spessore morale e intellettuale. “Da troppo tempo abbiamo dei punti interrogativi che dobbiamo risolvere - diceva allora - bisogna arrivare a capire chi è che ha messo l’esplosivo a partire da Piazza Fontana ad arrivare fino ad oggi, non è solo mafia, c’è qualcos’altro, che deve essere chiarito”. C’è qualcos'altro, appunto. Le indagini ed i processi di questi ultimi 26 anni hanno offerto i primi frammenti di verità e da qui si deve partire senza remore.

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