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alfano beppedi Aaron Pettinari
Ventisei anni dopo l'omicidio restano ancora troppe ombre

Ventisei anni sono passati dall'uccisione di Beppe Alfano. Un cronista scomodo che, pur senza tesserino (l’Ordine lo conferì alla sua memoria solo nel 1998, ndr), riusciva a "rompere i coglioni" svelando gli intrecci tra mafia, massoneria e politica nel messinese e in quella Barcellona Pozzo di Gotto che da sempre è teatro di trame oscure.
Le prime denunce giornalistiche su abusi, inadempienze, sprechi della pubblica amministrazione erano state compiute attraverso le antenne barcellonesi di Telenews, emittente tv rilevata nel ‘90 dall’amico d’infanzia Antonio Mazza, quindi aveva proseguito collaborando con il quotidiano "La Sicilia". Nelle sue indagini si era occupato anche di un traffico internazionale di armi che passava nell’area di Messina oltre a numerosi articoli di denuncia sugli intrecci tra criminalità organizzata e politica inquinata.
La notte dell'8 gennaio 1993 venne colpito mortalmente da tre proiettili mentre si trovava fermo alla guida della sua Renault 9 a Barcellona Pozzo di Gotto.
Nonostante le indagini e ben quattro processi su questo delitto non è ancora stata fatta piena luce.
All’inizio si diffuse la voce che fosse stato ucciso per questioni di gioco, o forse passionali. Il processo per la morte del giornalista iniziò nel 1995: imputati erano Antonino Mostaccio, ex presidente dell’Aias, e il boss Giuseppe Gullotti, presunti mandanti. Insieme a loro Antonino Merlino, accusato di aver eseguito il delitto. Quest’ultimo fu condannato a ventun anni e sei mesi di reclusione, mentre i primi due vennero assolti. Al processo d’Appello la condanna a Merlino venne confermata, ma a questa si aggiunse quella a Gullotti (a trent’anni) con la matrice mafiosa dell'omicidio che venne comunque riconosciuta. Negli anni scorsi, però, con le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Carmelo D'Amico, ex killer di Barcellona Pozzo di Gotto, il caso è stato riaperto alla ricerca dei mandanti esterni e per scoprire la verità sul depistaggio che si è consumato nel tempo.
“...Mio fratello Carmelo, dopo che uscì dal carcere nel 1995, a seguito del triplice omicidio Raimondo-Geraci-Martino, mi disse che quell’omicidio non era stato commesso da Antonino Merlino, che dunque era stato arrestato un innocente e che l’esecutore materiale di quel fatto di sangue era stato, in realtà, Stefano Genovese" ha detto D'Amico ai pm. Poi ha aggiunto: "Mio fratello Carmelo non mi disse come fosse venuto a sapere queste circostanze. Per l’omicidio Alfano furono arrestati Merlino e Pippo Gullotti ma mentre Merlino non c’entrava niente, era coinvolto in pieno Gullotti... Mi pare di ricordare che Carmelo mi disse anche che all’omicidio Alfano aveva partecipato tale Basilio Condipodero, soggetto anche lui affiliato ai barcellonesi. Specifico però che non sono sicuro che mio fratello mi abbia riferito di tali circostanze. Mi pare di ricordare che la partecipazione di Condipodero all’omicidio Alfano me l’abbia riferita qualcun altro, ma in questo momento non ricordo chi". L'inchiesta ter, dunque vede indagate almeno due persone, anche se sull'intera inchiesta vige ancora oggi il massimo riserbo.
Dopo tanti anni è ancora avvolto nel mistero il movente per cui il giornalista fu ucciso. Ai familiari, verso la fine del 1992, disse: “Ormai è soltanto questione di giorni. Non mi hanno ucciso a dicembre, lo faranno prima della festa di San Sebastiano (il 20 gennaio, ndr)". Perché si era convinto di questo?

alfano beppe figli

Resta in primo piano la vicenda della mancata cattura del boss Nitto Santapaola a Terme Vigliatore, con il boss catanese che avrebbe trascorso l'ultima fase della sua latitanza proprio nel messinese.
Di questo aspetto Alfano sarebbe venuto a conoscenza e, secondo quanto sostenuto dalla figlia Sonia Alfano, il padre venne ucciso proprio per aver rivelato al pm Olindo Canali la presenza di Santapaola a Barcellona. Sempre la Alfano ha raccontato di documenti spariti riguardanti traffici di armi e uranio sui quali il padre stava indagando.
“Quegli appunti - ha ricordato in più occasioni - sono spariti da casa la sera stessa dell’omicidio, dopo la perquisizione delle forze dell’ordine. Alle 22.45 dell’8 gennaio 1993 piombarono a casa nostra oltre 50 agenti di vari corpi che portarono via numerose carte ed effetti personali, ma non tutto ci è stato restituito. Tante cose, anzi, non sono state neanche verbalizzate”.
Tra i buchi neri ancora irrisolti, vi è inoltre il mistero della Colt 22, l'arma usata per l'omicidio, mai sottoposta a perizia balistica, le cui tracce sono state scoperte dall’avvocato Fabio Repici, legale della famiglia Alfano. In un verbale del 28 gennaio ’93, acquisito agli atti del processo, veniva riportato che 20 giorni dopo l’assassinio di Alfano Olindo Canali, titolare dell’inchiesta, aveva scoperto che l’imprenditore Mario Imbesi possedeva una Calibro 22 e se l’era fatta consegnare, con un iter quantomeno insolito. Il magistrato, infatti, invece di sequestrare l’arma, aveva atteso un’ora e mezza che l’imprenditore fosse andato a casa a prelevare la pistola per poi prenderla in consegna. Dopo otto giorni, il 5 febbraio, il revolver era stato restituito al proprietario, ma agli atti del processo non risulta alcuna perizia balistica sull’arma. Solo diciassette anni dopo la morte di Alfano, nel 2011, la Scientifica dimostrerà che quell’arma, con l’omicidio del cronista, non c’entra niente. 
E' sempre l'avvocato Repici a scoprire però l'esistenza di un’altra Colt 22 nella disponibilità di Imbesi. Quest’altra arma sarebbe stata ceduta nel ’79 a Franco Carlo Mariani, fermato nel 1984 in quanto coinvolto in un’indagine sulle bische clandestine. Insieme a Mariani, viene arrestato anche Rosario Pio Cattafi (finora solo sfiorato dalla pista investigativa del delitto Alfano) condannato in primo grado a 12 anni per associazione mafiosa e considerato anello di congiunzione tra mafia, massoneria e servizi segreti), accusato dal pm di Barcellona Francesco Di Maggio (ex vice capo del Dap, ritenuto tra i personaggi chiave della trattativa e uno dei principali artefici, nel ‘93, della revoca del carcere duro a oltre 300 mafiosi) affiancato da Olindo Canali, al tempo uditore e che diventerà in seguito pubblico ministero al processo Alfano. Canali, dopo aver restituito la prima pistola a Imbesi, si recò a Roma per incontrare Di Maggio. La sua partecipazione ad incontri sul delitto Alfano, quando ancora ricopriva l’incarico di funzionario Onu a Vienna, sarebbe stata giustificata dall’aver svolto indagini che coinvolgevano “soggetti barcellonesi trasferiti a Milano e coinvolti in traffici di armi”. Secondo la ricostruzione di Repici, che insiste proprio sulla centralità della pista della Colt 22, questa descrizione calzerebbe perfettamente al profilo di Cattafi e nei mesi scorsi lo stesso legale ha chiesto alla Procura di Messina di appurare se la pistola sia in qualche modo arrivata a Cattafi, o se sia stata effettivamente usata per l’attentato al giornalista. La speranza è che presto si possa finalmente far piena luce anche su questo delitto.

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