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cusimano salvatoredi Salvatore Cusimano
I cronisti della mia generazione hanno affrontato il racconto delle stragi muovendosi per decenni su un terreno ambiguo. Hanno dato conto quotidianamente di quanto le indagini della magistratura e delle forze dell’ordine (quando non depistavano) andavano via via svelando. Arresti su arresti. Sfilate di prime e seconde file dell’organizzazione criminale, producendo l’impressione, va detto, che la rivoluzione fosse in atto. Ma i cronisti vivevano soprattutto la frustrazione per i silenzi, gli interrogativi senza risposte, la crescente consapevolezza che dietro gli eccidi ci fossero altre ragioni. Spiegazioni più complesse e angoscianti in una stagione in bilico fra democrazia e tentativi eversivi. Quando ci si incontrava le analisi assumevano spessore e consistenza. Ma le analisi, pur indispensabili per orientarsi in una vorticosa girandola di scoop, colpi di scena, depistaggi, “polpette avvelenate”, soffiate interessate, restavano solo l’indispensabile strumento per continuare la ricerca senza arrendersi. Ci voleva il lavoro di magistrati coraggiosi, in grado di affrontare anche l’impopolarità per avviare l’indagine in quel territorio grigio sul quale nessuno in precedenza aveva voluto addentrarsi. Chi lo aveva fatto era incorso in sottovalutazioni o in fughe in avanti. Poi un gruppo di lavoro, costituito da quattro pubblici ministeri, Teresi, Di Matteo, Del Bene e Tartaglia, ha provato a cambiare strada, anche riprendendo il filo di vecchi tentativi come l’indagine sui “Sistemi criminali”. Il loro lavoro delicato e rischioso, oggetto, fin dall’inizio, di critiche e insulti e di un linciaggio mediatico con pochi precedenti, è giunto in porto con una sentenza che, seppure in primo grado, ha dato una risposta a molti degli interrogativi posti all’inizio di questo scritto. Non li ha fermati l’isolamento, l’avversione di gran parte delle forze politiche, di molti giuristi, la reazione dura dell’ex Capo dello Stato Napolitano. 

La trattativa c’è stata. Cosa Nostra ha portato il ricatto dentro il cuore dello stato con il concorso di rappresentanti delle istituzioni. Pezzi dello Stato ai più alti livelli hanno accettato di piegare leggi, regole e uomini ai voleri dei corleonesi. Un clima che ha determinato l’accelerazione dell’assassinio di Paolo Borsellino. Dietro i gruppi deviati si intravedevano (ma i loro nomi non compaiono nel processo e il pm Di Matteo saggiamente scrive che il percorso e la ricerca non sono ancora completi) i “pupari” che per decenni hanno condizionato la vita del paese a suon di bombe e depistaggi, di smemoratezza e omertà. il patto sporco integrale
Le motivazioni della Corte presieduta dal giudice Montalto in oltre cinquemila pagine raccontano tutto questo con correlazioni logiche che impegneranno e non poco i giudici di appello e quelli di Cassazione.
I magistrati impegnati nel primo storico maxiprocesso, Pm e giudici istruttori, dopo la storica sentenza che gli riconosceva un clamoroso successo, non finivano di meravigliarsi per l’ostilità di un pezzo di paese. “All’estero ci osannano e ci considerano eroi, qui da noi ci accusano dei peggiori misfatti”.
Anche per il “processo trattativa” è stato seguito lo stesso canovaccio. Media e opinionisti, dopo le prime imbarazzate e scontate reazioni all’inatteso verdetto, hanno scelto di far calare una coltre di silenzio sull’esito del dibattimento, destinato a essere una pietra miliare per le future indagini sulle collusioni fra criminalità organizzata e potere. Persino nel fronte dell’antimafia ”c’è chi si è defilato pur di non condividere i severi giudizi e le ricostruzioni dei Pm. Un silenzio che suona come dissenso verso quei magistrati che hanno osato “sconfinare”.
Tocca a tutti i democratici autentici battersi perché si arrivi a una conclusione definitiva, che non lasci dubbi. Nel frattempo lo Stato deve continuare a farsi carico senza tentennamenti della tutela dei suoi magistrati, per i quali il rischio e la minaccia, già pesanti, diverranno ancora più forti man mano che si avvicinerà la sentenza definitiva. Quel grumo di potere che si intravedeva dietro i comunicati della Falange Armata è in questo momento in sonno, tenuto buono da chi spera in un rovesciamento dei pronunciamenti delle corti, magari nel prevalere più che delle argomentazioni giuridiche delle divisioni che attraversano da sempre gli schieramenti dei magistrati. L’incertezza che grava sul paese e l’inesperienza di molti suoi nuovi governanti può costituire un clima adatto al riaffiorare dei “professionisti dell’intrigo”. Bisogna essere pronti ad alzare ancora di più l’allarme se si determineranno le condizioni per le quali “qualcuno tornerà a chiedere” di fare l’attentato, come ha riferito il boss Galatolo al giudice Di Matteo nel loro primo incontro spiegandogli che i mandanti dell’attentato nei suoi confronti erano all’esterno di Cosa Nostra. Le stesse parole intercettate un quarto di secolo prima al chirurgo - boss Giuseppe Guttadauro a proposito del delitto Dalla Chiesa: “ce l’hanno chiesto”.
Il libro di Nino Di Matteo e Saverio LodatoIl patto sporco”, pubblicato da Chiarelettere, pone in maniera diretta tutte queste questioni e ha il merito indiscutibile di portare a conoscenza di un vasto pubblico, con parole semplici, un processo fra i più complessi degli ultimi decenni. Il racconto di uno dei protagonisti dell’inchiesta e del dibattimento e la ricca documentazione consentono di poter sviluppare approfondimenti e giudizi consapevoli. Un libro necessario lo definirei. Tanto più che i giornali e le tv, tranne rare eccezioni, hanno rinunciato al loro dovere di informare e di criticare sulla base di dati di fatto e di vera conoscenze degli atti, senza restare prigionieri di pregiudizi e interessi anche politici.
La parte centrale del libro in cui vengono affrontati i pilastri dell’inchiesta è drammatica. I fatti vengono messi in fila e sono innegabili. Una sequenza impressionante di azioni e reazioni, di mosse e contromosse (i carabinieri Mori e De Donno incontrano Vito Ciancimino, i mafiosi inviano una lettera di minacce all’allora presidente Scalfaro e ai vescovi di Firenze e Milano poco prima degli attentati del ’93, scattano le rimozioni degli “intransigenti” il ministro Scotti dall’Interno e Nicolò Amato dal DAP, e infine non viene rinnovato il 41 bis a centinaia di boss). Cronaca di uno Stato che accetta il ricatto. La seconda Repubblica nasce con una svolta politica in cui a giocare, fra i tanti attori, c’è anche Cosa Nostra che da tempo aveva avviato, attraverso Dell’Utri, un rapporto diretto con Forza Italia. E i boss fecero arrivare la loro minaccia al nuovo presidente del Consiglio, Berlusconi, così come avevano fatto con i precedenti tre governi.
Questo è solo un assaggio del contenuto del volume. Una lettura obbligata per chi ritiene che la democrazia debba essere il più possibile una casa di vetro non come la nostra infestata da troppe zone d’ombra dove si annidano i suoi nemici.
La mafia, gli amici della mafia, le “falangi”, le “manine” come le chiama Saverio Lodato, amano il silenzio, assecondano il torpore delle coscienze, per poter continuare a svolgere il loro lavoro “complementare" a quello delle mafie.
Il libro e la testimonianza di Di Matteo infrangono quel “fragoroso silenzio” e rivelano il volto più nascosto del potere corrotto che ha tenuto in ostaggio il nostro Paese.

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