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canali tribunale reggio calabriadi Lorenzo Baldo
“Una perfetta strategia criminale”. Così l’aveva definita Sonia Alfano, figlia del giornalista Beppe Alfano, assassinato da Cosa Nostra l’8 gennaio 1993. Con quelle parole l’ex presidente della Commissione antimafia europea aveva commentato nel 2009 l’ammissione del pm Olindo Canali: era lui l’autore di una lettera anonima presentata durante il processo Mare Nostrum. In quella lettera, che è tra le principali basi dell'accusa nell'odierna indagine – nella quale veniva anche screditato l’avvocato Fabio Repici (legale della famiglia Alfano) – veniva esternato il dubbio che la persona condannata al processo per omicidio di Beppe Alfano, in cui Canali era stato il pm, non fosse il responsabile e cioè il boss della mafia barcellonese Pippo Gullotti. “C’è una vittima e si chiama Beppe Alfano – aveva replicato a caldo Sonia Alfanoe ci sono dei carnefici, in particolare il boss Pippo Gullotti. Tentare ora di far passare i carnefici come delle vittime è una perfetta strategia criminale”. Fa un certo effetto rileggere quelle parole dopo aver appreso che Olindo Canali è indagato per corruzione in atti giudiziari con una squallida aggravante: aver favorito Cosa Nostra. Il caso vuole che la notizia dell’indagine sul magistrato brianzolo arrivi proprio nel giorno del decimo anniversario della morte di Adolfo Parmaliana: un uomo giusto stritolato da un sistema di potere legato all’ex magistrato Franco Cassata, amico dello stesso Canali.
“Questo tentativo di infangare ancora una volta la memoria di mio padre mi imbarazza molto – aveva sottolineato all’epoca la Alfano – ma continuerò a lottare, ogni giorno che vivrò perché giustizia sia fatta”. Per poi ribadire con forza: “Ho sempre sottolineato il comportamento ambiguo di Canali, che è stato lampante sin dalle prime ore dopo l’uccisione di mio padre, quando venne a dire a me e mia madre che non era stato in grado di proteggerlo. E’ un magistrato, con la toga. Il suo compito dovrebbe essere quello di cercare la verità e di rispettarla quando viene sancita in tutti i gradi di giudizio. Perché non ha parlato prima se le sue affermazioni sono vere? E’ stato lui a raccogliere le dichiarazioni di mio padre, a gestire Bonaceto (l’ex collaboratore di giustizia, Maurizio Bonaceto, le cui dichiarazioni furono decisive nel processo per l’omicidio di Alfano, ndr), a fare il pm nel processo di primo grado...”. Parole che oggi risuonano profetiche.
Ripercorrendo la “carriera” di Canali ci accorgiamo che nel 2012 è stato condannato in primo grado per falsa testimonianza, per poi essere assolto in appello e successivamente in Cassazione. Ed è proprio il focus sulla sua attività in Sicilia quello che merita ulteriore attenzione. La vita di Olindo Canali è strettamente legata a Barcellona Pozzo di Gotto (Me), proprio nel periodo in cui il latitante Nitto Santapaola si nasconde in quella città. Durante i primi mesi del ‘93 la voce di Santapaola resta impigliata nelle intercettazioni attivate da Canali, all’epoca sostituto procuratore di Barcellona Pozzo di Gotto, nell’indagine sull’omicidio di Beppe Alfano. Certo è che già verso la fine del ‘92 lo stesso Alfano aveva saputo della presenza di Santapaola a Barcellona Pozzo di Gotto e l’aveva confidato alla figlia Sonia e a qualche carabiniere. Ma soprattutto l’aveva confidato a quello che riteneva un amico: Olindo Canali. Ed è l’avvocato Repici, in una minuziosa e illuminate ricostruzione, a ricordare che il magistrato lombardo, trapiantato in Sicilia, nel 1984 era stato uditore giudiziario a Milano dell’ex vice capo del Dap Francesco Di Maggio, definito dal pool di Palermo il “braccio operativo del Ros” nella trattativa tra Stato e mafia. Alcuni anni dopo è lo stesso Canali a parlare di quel colloquio con Beppe Alfano in un suo memoriale: “Verso i primi giorni di dicembre... Alfano mi venne a trovare in Ufficio. Come sempre guardingo. Più che mai guardingo. Chiuse la porta e mi disse di avere avuto notizia che Santapaola fosse a Barcellona o nei pressi di Barcellona. Mi disse che mi avrebbe fatto avere notizie più precise … Per qualche giorno, se non ricordo male, non vidi Alfano … Poi ricomparve e mi ribadì ancora la notizia su Santapaola … Tra la prima notizia sulla presenza di Santapaola e la seconda passarono, credo, quattro o cinque giorni. Il sabato prima di Natale … io pranzai a casa Alfano. Non ricordo se quello stesso giorno accompagnandomi dopo il pranzo o il giorno successivo … Alfano mi salutò con quella battuta che ho sempre riferito in ogni sede: che al mio rientro mi avrebbe detto esattamente dove si trovasse Santapaola”. Una volta appreso quel dato Olindo Canali non apre un’indagine, né tanto meno comunica quella preziosa informazione ai colleghi di Messina o di Catania. Decide piuttosto di agire diversamente. Il 21 giugno 2009 è proprio Canali a raccontarlo, senza sapere di essere intercettato dalla Procura di Reggio Calabria, in una telefonata all’ex magistrato Bruno Tinti. Che rimane letteralmente sbigottito da quanto apprende. L’ex pm di Barcellona Pozzo di Gotto gli confida di avere ricevuto da Beppe Alfano la notizia della presenza a Barcellona Pozzo di Gotto del latitante Benedetto Santapaola e di averla girata a un magistrato che si trova fuori ruolo (in quel momento in servizio a Vienna) e cioè Francesco Di Maggio. Evidentemente si tratta di una mera coincidenza per un uomo come Canali. Che è abituato a sminuire fatti e circostanze con una nonchalance degna di un attore consumato. Ma la tragedia che si consuma oggi riguarda piuttosto la banalità del male. Che – a prescindere dalla presunzione di innocenza – può servirsi anche di simili personaggi. Le cui azioni, o omissioni, verranno giudicate in un’aula di giustizia. Nel frattempo resta il giudizio della storia, e il totale disprezzo di chi ha sofferto per causa loro.

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