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di matteo c paolo bassani 2017di Daniel Verdú
Il magistrato antimafia Nino Di Matteo, che indaga sulla trattativa tra lo Stato italiano e Cosa Nostra, lamenta la mancanza di impegno della politica nella lotta contro il crimine organizzato.

Nel corridoio, un gruppo di agenti della scorta trascorre il pomeriggio chiacchierando. Dietro la porta blindata, in un ufficio della Procura Antimafia di Roma, al quale si accede tramite un interfono, attende il magistrato più protetto di Italia. Nino Di Matteo (Palermo, 1961), il magistrato che ha investigato i vincoli tra lo Stato italiano e Cosa Nostra, è sotto protezione dal 1993. Ma negli ultimi 5 anni, da quando la polizia intercettò delle conversazioni in carcere del capo di Cosa Nostra Totò Riina, le misure di sicurezza adottate nei suoi confronti sono al massimo livello. Il capo dei capi voleva vederlo morto. E aveva i suoi motivi.

D. In parte l’aumento del livello della sua sicurezza si deve alle minacce di Totò Riina. Cosa ha provato quando è morto?
R. Ho pensato che con lui non moriva solo il grande capo. È stato il punto di riferimento di tutte le organizzazioni mafiose che operavano dentro e fuori dell’Italia. Nella sua mentalità, incarnava la figura di un criminale di successo che ottenne risultati insoliti fino ad oggi. Stabilendo anche dei rapporti criminali con alti livelli del potere in Italia. Non bisogna dimenticare questo.

D: Fino a che livello?
R: Ci sono due sentenze definitive. Quella Andreotti dimostrò che la mafia palermitana aveva avuto rapporti diretti e significativi fino agli anni ’80 con una persona che era stata 7 volte presidente del Consiglio di Ministri (Giulio Andreotti). E c’è un’altra, scomparsa dall’agenda politica, come quella su (Marcello) Dell’Utri, che dimostra che uno dei fondatori di Forza Italia mantenne rapporti con esponenti di famiglie mafiose di Palermo. Ma anche che dal 1974 al 1992 fu l’intermediario di un accordo stipulato e rispettato da una e l’altra parte, e che aveva come protagonisti famiglie storiche come quella di Riina, e dall’altra parte Silvio Berlusconi. A quel livello Cosa Nostra mise in gioco la sua capacità di coltivare i rapporti con il potere.

D. C’è qualcosa che permette di pensare che quei rapporti non esistono più?
R: Cosa Nostra non rinuncerà mai a coltivarle. È nel suo DNA. La sua forza è nella capacità di mantenere quei vincoli. Ecco perché spero che la politica capisca finalmente un giorno che per vincere la mafia non è sufficiente arrestare, processare e condannare i mafiosi. Bisogna creare le condizioni per porre fine a questi rapporti. Ma purtroppo molti segnali che ci aspettavamo non sono arrivate.

D. Durante questa campagna praticamente non è stato toccato il tema.

R: È desolante constatare come si parla così poco di mafia e corruzione. Si pretende far vedere che non sono il principale problema della nostra democrazia. Mi aspettavo una maggiore attenzione nei programmi e nella dialettica elettorale. Mi sorprende che si parli di economia, ad esempio, e non si capisca che le mafie la condizionano e causano l’impoverimento di tutti quei territori dove loro sono più forti.

D. Dov’è la frontiera tra mafia e corruzione?
R: È sempre più sottile, formano parte di un unico sistema. Non esiste più solo mafia. E la giustizia non riesce ancora a colpirli allo stesso modo. Oggi abbiamo nelle carceri italiane oltre 60.000 detenuti, ma i condannati per corruzione non arrivano a 30. E, giustamente, questi sono i reati attraverso i quali si riesce a controllare l’amministrazione pubblica. Oggi dovrebbe figurare nell’agenda politica la lotta senza quartiere contro la mafia e la corruzione, ma purtroppo non è così.

D. Perché?
R. Non capisco se sia perché si sottovaluta o perché si accetta. Nei primi anni ’90 c’era un ministro del primo governo Berlusconi (Pietro Lunardi) che disse che bisognava imparare a convivere con loro. Ma a nome di tutti i nostri colleghi morti e della gente che continua a combattere, non si può accettare mai.

D. Qualche volta ha sentito che veniva tradita la memoria di Falcone e Borsellino?
R. Sì, il loro lavoro è stato più volte tradito. Con i fatti e con i politici che quando loro erano in vita li accusavano di essere politicizzati, comunisti, giustizieri. Quando poi morirono, si fecero vedere onorando la loro memoria, ma continuavano ad accusare quei giudici vivi che pretendevano di vigilare il potere. Il tradimento alle loro figure e al loro impegno è stato molto grave da parte di molti politici.

D. Cosa sarebbe la mafia senza la politica?

R: Le rispondo con le parole di Salvatore Cancemi, un collaboratore della giustizia che faceva parte della Cupola di Cosa Nostra e che, per capirci, fu uno di quelli che sedette allo stesso tavolo insieme a Riina e Provenzano per decidere dove e come uccidere Falcone e Borsellino. Dopo un lunghissimo interrogatorio mi disse: “Dottore, Totò Riina mi diceva molte volte: ‘Senza il rapporto con la politica, saremo stati una banda di sciacalli (criminali comuni). Lo Stato ci avrebbe schiacciato la testa con facilità. Quella è la nostra forza e dobbiamo continuare a coltivarla’. Non l’ho mai dimenticato.

D. Silvio Berlusconi è in condizioni di influenzare ancora questo paese. Cosa significa questo per l’Italia?
R. C’è una sentenza definitiva che afferma che dal 1974 al 1992 Berlusconi ha mantenuto rapporti con la mafia siciliana. La finanziò, diede loro denaro. La cosa preoccupante non è solo che ancora lui conti qualcosa a livello politico, ma che nessuno parli di quei rapporti dimostrati con sentenza definitiva. Incluso i giornalisti lo ignorano. Al di là delle idee politiche di ognuno, i fatti dovrebbero essere sempre ricordati.

D. Cosa significherebbe il suo ritorno in prima linea?
R. Cito un dato: rappresenterebbe il ritorno alla guida del paese di un soggetto con una sentenza definitiva sulle spalle, riconosciuto come persona che ha mantenuto rapporti con Cosa Nostra per almeno 20 anni, fino a quando Cosa Nostra iniziò gli attentati. Un soggetto che ha finanziato economicamente la mafia nel periodo in cui furono uccise decine di persone delle istituzioni. Non è una mia opinione. È un fatto riconosciuto dalla Corte Suprema.

D. Secondo le sue indagini, Cosa Nostra può ancora ricattare lo Stato?

R. Dalle indagini sugli attentati del 1992 e 1993 emerge la probabilità che insieme a Cosa Nostra ci fosse gente di altri ambienti. Mandanti esterni. E finché non si scopre la verità su queste persone, Cosa Nostra avrà sempre in mano un’arma molto pericolosa come quella del ricatto. Ci sono ancora uomini di Cosa Nostra che custodiscono segreti che coinvolgono il potere italiano. Fin quando sapremo soltanto una verità parziale sui fatti accaduti, sarà una verità negata. E non possiamo accettarlo.

D. Borsellino aveva ragione quando disse che non sarebbe stata Cosa Nostra ad ucciderlo?
R. Cosa Nostra partecipò. Ma in tanti delitti, incluso quello di Via D’Amelio, altri istigarono Cosa Nostra a realizzare quell’attentato o parteciparono insieme ai mafiosi nell'esecuzione.

D. Che evoluzione crede lei ci sia stata nell’avvicinamento del Vaticano alla mafia?
R. Le rispondo come magistrato, ma anche come credente cattolico. Per decenni la Chiesa è stata responsabile di una gravissima accettazione del potere mafioso. Con il loro silenzio, la mancanza di attenzione, l’omissione. Ma negli ultimi anni, dopo il famoso discorso di papa Giovanni Paolo II, è stata molto importante la presa di posizione di Papa Francesco quando ha affermato che l’essere mafioso porta alla scomunica. E come cattolico, sogno una Chiesa ancora più coraggiosa, che porti questo discorso a tutti i livelli. Non ci può essere compatibilità tra il Vangelo e la mafia.

Tratto da: elpais.com/internacional

Foto © Paolo Bassani

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