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riina lorussodi Giovanni Bianconi
Uccidere il magistrato Di Matteo è l’ultimo ordine del capo dei capi e rimane "certamente operativo"

Roma. Uno degli ultimi desideri espressi da Totò Riina è stato recepito dai mafiosi come un ordine, ancora vigente: l’omicidio del pubblico ministero Nino Di Matteo. Per i magistrati che hanno indagato a fondo sui propositi di attentato nei suoi confronti, "il progetto di uccidere il dr. Di Matteo è certamente operativo per gli uomini di Cosa nostra". Ne ha parlato, tre anni fa, il pentito Vito Galatolo, e gli inquirenti di Caltanissetta (competenti per i procedimenti che coinvolgono i loro colleghi palermitani) hanno espresso su quelle dichiarazioni "un giudizio di sostanziale attendibilità". In particolare, affermano, "deve ritenersi provata l’esistenza di un progetto criminoso teso all’eliminazione del dr. Di Matteo, magistrato da sempre impegnato sul fronte antimafia, da ultimo protagonista delle indagini sulla cosiddetta trattativa fra Stato e mafia ai tempi delle vicende stragiste dei primi anni Novanta".

Minacce dal carcere
È scritto nella richiesta di archiviazione dell’inchiesta per tentato omicidio a carico di otto mafiosi (tra cui lo stesso Galatolo e il latitante Matteo Messina Denaro) accolta dal giudice qualche mese fa. Il processo non ci sarà perché il progetto non ha "oggettivamente superato la soglia della fase preparatoria"; la ricostruzione del pentito risulta "in alcuni punti lacunosa", e contiene delle "contraddizioni non facilmente superabili alla luce delle sue conoscenze". L’esplosivo che avrebbe dovuto essere utilizzato non è stato trovato, né ci sono prove del suo acquisto.
Dunque il fascicolo va in archivio, ma nel dare conto degli accertamenti svolti il pool di Caltanissetta al completo - il procuratore Amedeo Bertone, gli aggiunti Lia Sava e Gabriele Paci, il sostituto Stefano Luciani - ribadisce il peso del ruolo ricoperto da Totò Riina finché è rimasto in vita. E fornisce spunti utili a capire come Cosa nostra è stata governata negli ultimi anni, e come potrà riorganizzarsi dopo la morte del capo corleonese.
Sulle minacce a Di Matteo, che oggi è in servizio alla Procura nazionale antimafia e si appresta a pronunciare la requisitoria finale nel processo palermitano sulla trattativa, i pm ricordano le rivelazioni di altri pentiti che fanno risalire l’intenzione di ucciderlo al 2007. Infine ricordano, "non ultime per importanza", le intercettazioni in carcere in cui "Riina Salvatore, commentando le udienze del processo trattativa, manifestava a più riprese l’astio nutrito nei confronti del dr. Di Matteo, in un crescendo che sfociava nella manifesta intenzione di ucciderlo facendogli fare “la fine del giudice Falcone”".

Nuove regole
È stato proprio Galatolo a spiegare che quando le registrazioni divennero di pubblico dominio, "la nostra opinione fu che il Riina, il quale non poteva ignorare di essere intercettato, avesse utilizzato quella modalità per mandare messaggi all’esterno".
Nel suo racconto la "sollecitazione" era venuta, a dicembre 2012, da Matteo Messina Denaro, che tramite il messaggero fidato Girolamo Biondino (fratello di Salvatore, arrestato con Riina nel 1993) aveva chiesto di uccidere Di Matteo perché con le sue indagini "stava andando oltre". In una lettera il latitante avrebbe "giustificato la sua assenza poiché non era in Sicilia", e questo è un dettaglio non secondario: per un capomafia è difficile mantenere il comando lontano dall’isola, e se la situazione fosse ancora questa per gli investigatori è pressoché impensabile che ora possa prendere il posto di Riina. Come pure il fratello di suo cognato, Giuseppe Guttadauro, già boss del quartiere Brancaccio che dopo la scarcerazione per fine pena vive stabilmente a Roma.
Nello stesso messaggio, il latitante suggeriva nuove regole per il funzionamento di Cosa nostra: "Le famiglie dovevano ristrutturare i mandamenti, e in particolare i nuovi capi mandamento potevano decidere autonomamente su fatti anche omicidiari, anche se il titolare era vivo ma detenuto".

«Cupola ristretta»
Sulla lettera di Messina Denaro i pm conservano qualche dubbio, mentre è stata riscontrata la riunione svoltasi nel centro di Palermo: "Una sorta di “cupola” ristretta - scrivono i pm - composta dai capi mandamenti di Resuttana, San Lorenzo e Porta Nuova". Secondo il pentito "la Cosa nostra palermitana" (rappresentata in quell’occasione da lui, Biondino e altri due) era contraria all’attentato per via delle "inevitabili conseguenze della reazione dello Stato"; tuttavia pensarono ci fosse la "copertura" di Riina, poi confermata dalle conversazioni intercettate in prigione. Con la morte del padrino anche questa situazione è mutata, forse aprendo la strada del comando al nipote Giovanni Grizzaffi, tornato a Corleone dopo oltre vent’anni di galera. Ma sono solo ipotesi. Inquirenti e investigatori non hanno certezze sulla successione al vertice di Cosa nostra, mentre l’ordine di colpire Di Matteo "resta operativo".

Tratto da: Il Corriere della Sera del 19 novembre 2017

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