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riina aulabunker ucciardone c getty images franco origliaIl capo dei capi è deceduto alle 3,37 nel reparto detenuti del carcere di Parma. Era in coma farmacologico dopo due interventi chirurgici
di Aaron Pettinari e Francesca Mondin
E' morto questa notte alle 3,37 Salvatore Riina, detto “Totò u curtu”. Era ricoverato, in stato di coma farmacologico, dopo essere stato sottoposto a due delicatissimi interventi chirurgici, presso il reparto detenuti del carcere di Parma. In particolare sarebbe stato durante il secondo intervento che si sarebbero verificate delle pesanti complicazioni che hanno reso necessaria una pesante sedazione. Così si è spento, all'età di 87 (compiuti giusto ieri), il boss corleonese considerato fino a poche ora fa il Capo dei capi. Il “viddano” che fece emergere il lato più feroce della mafia siciliana. Sotto il suo dominio Cosa nostra portò a termine i principali omicidi eccellenti degli anni '80 e insanguinò le strade di tutto “il continente” con la strategia stragista.
Riina, rinchiuso al 41 bis dal 15 gennaio '93, quando venne arrestato dopo una latitanza durata 24 anni. Stava scontando 26 condanne all’ergastolo dopo aver commesso stragi (tra le quali quella di viale Lazio, gli attentati del ’92 in cui persero la vita Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e quelli del 1993 a Milano, Roma e Firenze) ed omicidi efferati. In tutto questo tempo non aveva mai manifestato la volontà di collaborare con la giustizia, non si è mai pentito degli omicidi commessi e non ha nemmeno mai tentato di dissociarsi da Cosa nostra. Un giuramento che aveva ribadito a sua moglie Ninetta Bagarella: “Io non mi pento ... a me non mi piegheranno. Io non voglio chiedere niente a nessuno mi posso fare anche 3000 anni no 30 anni". E poi ancora: “Io sono Salvatore Riina ... e resterò ... e resterò nella storia".
Proprio la Dia, lo scorso luglio, nella relazione semestrale confermava il ruolo del boss corleonese al vertice di Cosa nostra. Intercettato in carcere durante il passeggio con il compagno d’ora d’aria, Alberto Lorusso, “La belva” (così è soprannominato), oltre a rivendicare le stragi e a vantarsi di aver fatto fare la "fine del tonno" a Falcone era tornato a minacciare magistrati in vita. Nel 2013 venne infatti intercettato durante l'ora d'aria con il suo compagno di cella Alberto Lorusso mentre additava come prossimo obiettivo da uccidere il magistrato Nino Di Matteo, pm di punta al processo sulla trattativa Stato-mafia.
Ed è proprio in questo processo, ancora in corso, che il Capo dei capi si trovava imputato di minaccia a Corpo politico dello Stato insieme a carabinieri come Mario Mori, Giuseppe De Donno e Antonio Subranni ed ex senatori come Marcello Dell’Utri e Nicola Mancino.

Storia criminale
Ma chi era Riina? 
“Totò vorrebbe sempre dare morsi più grandi della sua bocca” diceva di lui Luciano Liggio, il boss di Corleone che negli anni '60 iniziò l'avanzata verso Palermo.
Rina, assieme a Provenzano prese il posto di Liggio all'interno del triumvirato mafioso (di cui facevano parte Gaetano Badalamenti e Stefano Bontade) nel '74 dopo l'arresto di Liggio.
Presto si rivelò un boss sanguinario, senza scrupoli, bramoso di potere, manovratore di pedine, pronto a far saltare regole e criteri propri di cosa nostra che avevano regolato l'organizzazione criminale fino a quel momento. La “belva” lo chiamava il suo nemico numero uno Giuseppe Di Cristina, boss di Riesi che da subito si scontrò con il viddano di Corleone che prendeva decisioni senza consultare la Commissione regionale.
Dopo aver raccolto una buona somma di denaro con i sequestri di persona (vietati dalla Commissione) iniziò la scalata, garantendosi l'obbedienza di alcuni uomini scelti all'interno delle famiglie mafiose rivali, tessendo con astuzia una rete di persone fidate che rispondevano solo a lui. E così come Di Cristina, divenuto obiettivo da eliminare, fu ucciso nel '78, Riina prima isolò e poi eliminò a tradimento i capifamiglia che non lo vedevano di buon occhio fino ad arrivare nel 1981 a far uccidere i due storici capi di Palermo: Stefano Bontade e Salvatore Inzerillo. 
La mattanza scatenata da Riina passerà alla storia come seconda guerra di mafia anche se non si trattò di uno scontro tra due schieramenti in guerra quanto piuttosto di un numero elevatissimo di omicidi a tradimento. Fu così che il viddano “vinse”, sfruttando l'ambizione di alcuni uomini mafiosi, studiando le possibili brecce su cui far leva all'interno di ogni mandamento e diffondendo la strategia del terrore all'interno di cosa nostra. 
Le sue vittime potevano essere uomini, donne e persino bambini, poco importava a Zio Totò se questo serviva a mantenere il potere.

Strategia stragista
Con la stessa ferocia affrontò lo scontro con lo Stato che in quegli anni, grazie ad uomini del calibro di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, stava sferzando un duro colpo alla mafia ed al sistema che la sorreggeva. Il 30 gennaio '92 arrivò la condanna di diversi mafiosi al maxiprocesso e venendo a mancare l'appoggio politico fino a quel momento rappresentato dalla Dc, Riina scatenò una guerra a suon di bombe ricattando lo Stato che non esitò a "farsi sotto". A parlare di "trattativa" per primo ai magistrati fu Giovanni Brusca nel 1996 ma lo stesso Riina disse ad alcuni agenti della polizia penitenziaria, mentre stava per essere portato nella saletta delle videoconferenze per assistere al processo di Palermo: "Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me".

Segreti e misteri
Dopo Provenzano, deceduto nel luglio 2016, anche Riina ora dovrà vedersela con il padre eterno. Con lui se ne va anche la possibilità di conoscere molti misteri che avvolgono la storia italiana. E ancora una volta sono sempre le parole del Capo dei capi a far riflettere in merito: "Totò Cancemi dice che dobbiamo inventare che la morte di Falcone .... che ci devi inventare, gli ho detto? Lui ha detto ... inc ... gli ho detto: se lo sanno la cosa è finita”. Per gli inquirenti questo particolare passaggio del colloquio tra Riina e Lorusso (contenuto nelle intercettazioni trascritte dalla Dia e depositate al processo sulla trattativa Stato-mafia) è alquanto emblematico. Perché Salvatore Cancemi, ex boss di Porta Nuova, nonché fedelissimo di Riina, propone al suo capo di “inventare” qualcosa in merito alla strage di Capaci? Bisogna forse fornire una versione “ufficiale” al popolo di Cosa Nostra per evitare che si scoprano determinati retroscena di quell’eccidio? Perché Riina si preoccupa che “la cosa”, se si venisse a sapere, “è finita”? Forse perché così crollerebbe la sua immagine di capo assoluto che non prende ordini da nessuno, né tanto meno fa accordi con pezzi dello Stato?
La verità su tanti fatti, forse, è racchiusa nel famoso archivio di documenti che Riina avrebbe avuto nel suo covo. Documenti che come Totò u curtu ripeteva, secondo quanto detto dai pentiti, “avrebbero potuto far crollare l’Italia” e sui quali sono state fatte diverse ipotesi. Alcuni pensano li abbia in custodia l'inafferrabile Matteo Messina Denaro. Un anonimo, invece, nel 2012 inviò al pm Di Matteo ben dodici pagine in cui attestava che alcuni esponenti dell'arma avrebbero trafugato dei documenti scottanti dalla cassaforte nel covo di Riina, prima che fosse fatta la perquisizione, per conservarli poi per un certo periodo “in una caserma del centro di Palermo”. Sull'esistenza di questi documenti e sulla loro ubicazione può rispondere solo il ritrovamento o chissà, forse l'arresto del super latitante Messina Denaro. 
Quel che è certo è che per 18 giorni il covo del capo dei capi, con il relativo materiale all'interno, non fu perquisito e che non fu sottoposta ad alcuna sorveglianza, dando così il tempo ai “picciotti” e famigliari del capo della cupola mafiosa di ripulire con tutta tranquillità la villa dai segreti del boss. Quando il 2 febbraio le forze dell'ordine entrarono finalmente nel covo del boss trovarono addirittura le pareti ridipinte. 
La spiegazione ufficiale fu che si trattò di un equivoco, di un’incomprensione metodologica fra la Procura di Palermo e il Ros. La verità su cosa successe in quei giorni e perchè fu dato l'ordine di non perquisire subito il covo e di annullare la sorveglianza non è mai stata completamente chiarita e con la morte di Totò Riina si allontana ancora di più la possibilità di conoscerla, lasciando uno dei più incomprensibili buchi neri della storia della mafia e del nostro paese.

Gli ultimi giorni
Dopo le operazioni a cui era stato sottoposto, con l'induzione al coma farmacologico, con il parere positivo della Procura nazionale antimafia e dell’Amministrazione penitenziaria, il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, aveva firmato il permesso per i figli, la moglie ed i parenti più stretti di Riina. Lo scorso luglio il tribunale di sorveglianza di Bologna aveva rigettato la richiesta di differimento della pena per Totò Riina avanzata dai suoi legali. I giudici avevano ritenuto che il boss 87enne fosse curato nel migliore dei modi nell'ospedale emiliano. La decisione ha fatto seguito al provvedimento con cui la Cassazione aveva chiesto alla Sorveglianza di motivare meglio la compatibilità con il regime carcerario del boss malato.
Secondo i giudici Riina appariva “ancora in grado di intervenire nelle logiche di Cosa Nostra”, nonostante le sue condizioni di salute e l’età ormai avanzata e “va quindi ritenuta l’attualità della sua pericolosità sociale”. “La lucidità palesata” da Riina e “la tipologia dei delitti commessi in passato (di cui è stato spesso il mandante e non l’esecutore materiale) – si leggeva nell’ordinanza – fanno sì che non si possa ritenere che le condizioni di salute complessivamente considerate, anche congiuntamente all’età, siano tali da ridurre del tutto il pericolo che lo stesso possa commettere ulteriori gravi delitti (anche della stessa indole di quelli per cui è stato condannato)”. Frasi pronunciate appena 3 mesi prima che la Cassazione affermasse l’esistenza di un “diritto a morire dignitosamente”.

Il futuro
Cosa accadrà ora all'interno di Cosa nostra? Nel gennaio 2015 i boss Santi Pullarà e Mariano Marchese facevano intendere chiaramente come un’eventuale sostituzione al vertice fosse possibile solo con la morte. Cosa accadrà ora? Matteo Messina Denaro è ancora in libertà e a Palermo sono numerosi i capimafia usciti dal carcere pronti a raccogliere l'eredità dello storico padrino e ridiscutere gli equilibri di potere. Certo è che quel "vuoto" non resterà a lungo non colmato.

Foto © Getty Images/Franco Origlia

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